Fu così che ci ammalammo. Eravamo i padri dei padri. E già i figli, nel numero previsto. La montagna era una cosa viva, mobile. Si stagliava in cielo un sole di ghiaccio. Giungemmo qui sfiniti dalla fatica. Avevamo gli occhi dilatati in un dolore che non capivamo. Sentivamo paura. Parlavano per noi i nostri versi. Ci batte vano sulla schiena per indicare i pericoli. Non avevamo cognizione del mondo. Il mondo era la nostra fame. Eravamo chini sulla nostra stanchezza. L‘orizzonte dei nostri occhi era limitato dai nostri appetiti. Sensibili al freddo. Nudi e coperti da un raro pelo. Castigati da una luna gigante che dipingeva di bianco il nostro corpo. Intimiditi dalle ombre lunghe degli alberi. Spaventati dai denti della montagna che si mangiava il cielo. Affannati per la corsa, la fatica e chissa cos‘altro. Non sapevamo che questo era il rifugio. La memoria del nostro viaggio s‘era persa.
Fu il pasto della prima notte. Nessuno di noi dormì. Al sorgere del sole le nostre ombre ricurve piagavano la terra su cui c‘eravamo fermati. Alzammo gli occhi verso l‘ombra malevola. La montagna stringeva. Sembrava che i suoi denti volessero chiudersi. Ci prese un opprimente bisogno di mugolare, la bocca schiacciata sulla terra. Il freddo ci percuoteva. Dentro di noi sen tivamo una forza malvagia. Sotto di noi, nella terra, nel profondo, nel buio, nel I‘umido sconosciuto, una sorta di eco si ripeteva incapace di uscire. Non era freddo quello che ci faceva tremare. Alcuni di noi morirono. Nella morte rivolsero la faccia al cielo. Il cielo era limpido, serenamente conscio di noi. Le facce dei morti sembravano ancora ammalate. Ancora sofferenti dello sconosciuto che le aveva condotte a morire. Era fame. Lo gridò uno di noi. Il male, tutto il male di cui pativamo era fame. Chi fu il primo non è più nella nostra memoria. Forse era già divenuto figlio del padre o figlio del figlio. Corse incontro alla montagna senza il coraggio di guardarla, gli occhi rivolti all‘ombra ricurva. Correndo guai come un cane, come non sopportando la luce. Si schiantò contro la montagna. Il sangue della ferita si rapprese immediatamente, ghiacciato. Fu l‘unico sangue che, da allora, vedemmo. Afferrò la montagna, gridando. Gli altri di noi guardavano uno vicino all‘altro. Affondò i denti nella roccia della montagna. Ci fu rumore di ossa spezzate. Strappò e nella bocca aveva un pezzo della montagna. Gli occhi rilucevano di una soddisfazione animale. I suoi denti masticarono, più forti della pietra. Per lungo tempo masticò quella carne, sino a che la roccia fu sangue.
C‘è un tempo per pensare, o ripensare, impressi- oni e concetti e un tempo per parlare o dipingere o scrivere. Queste due dimensioni si completano come in un antico simbolo. In esso e racchiuso un limite invalicabile, oltre il quale conosceremmo tutti i perché dell‘opera d‘arte. Tra le mille tracce che un pittore lascia di sé, la più evidente da seguire per avvicinarsi all‘opera è forse questa. Permette di capire i ripensamenti dell‘inizio e l‘elaborazione che segue. Bruno Ritter può essere letto così. Nel primo tempo un complice scomodo: il pensiero che non può fare a meno di rivolgersi a Ensor o Munch. Le tele davanti alle quali si fa più forte la visione di queste radici propongono ammassi umani, talvolta un uomo solo ma come riconver- tito in poltiglia. Entro i confini delle tele uomini e donne, ancora, urlano; carichi di colori scempiati i loro vestiti, le stanze che abitano, le membra che espongono. Esseri in dissoluzione. Come dire che nessuno più ascolta l‘urlo, nessuno più si meraviglia di un‘agonia. Poi il solco si fa meno agevole da seguire, più tenue la traccia, più ardua la lettura. Sfuma, quasi, tutta l‘energia di prima. Ritter, stanco forse di rappresen- tare, lascia intendere; e il momento della fusione di idee o colori (ma idee e colori per un pittore sono sinonimi). Domina l‘inquieta dimensione dei qua- dri il silenzio. Dominano le figure rilasciate, ormai senza sangue. Il pennello è, in questa fase, più lontano dalle sue radici, s‘avvicina ai nostri tempi tormentati e disillu- si. Ha scritto T. Mann che quando l‘anima e tormen- tata dal dubbio non è bene stare fermi. Ritter ha camminato sulle sue tele, gli ultimi passi leggeri.
Anziché dire però Bruno Ritter dice „prò“: il suo vocabulario italo-svizzero ha questa „e“ facoltativa. È un ricordo tratto dal primo incontro: quando, contestandogli il freddo che faceva a Canete, lui rispose: „Prò si sta in pace“. Amen, dissi: perchè pace, è vero, c‘era, ma cimiteriale. E da cimitero di montagna, dove i morti a me hanno sempre dato l‘idea di soffrire di più degli altri a stare sotto- terra.
Canete non è neanche una cacca di mosca su una cartina geografica: è un colpo di karatè tirato nella montagna di un Dio giocherellone. È una sfida posta in questi termini: se è vero che l‘uomo che ho creato si adatta a tutto qualcuno andrà ad abitare anche lì. Detto, fatto. Bruno Ritter ci è arrivato dalla Svizzera con una faccia da Malcolm Mac Dowell e vezzi da cosmopolita, ripartendosene, dopo parecchi anni, con un sorriso da giorno di cresima e muscoli da spaccalegna. Quanta legna avra spaccato nel corso di quegli anni non so dire: tonnellate comunque. Alternative, contro il freddo, non ne aveva, se non quella, impraticabile, di adorare il Dio Sole.
Chi gliel‘ha fatto fare? Cherchez la femme, ma non solo. L‘amore, direi, anzi l‘amour, perché detto alla francese ho l‘impressione che quella erre finale si prolunghi all‘infinito. L‘amour, allora, per Maya, la donna che gli ha offerto il riparo di Canete, e per sè, arte e pennelli compresi. È un lungagnone, il Ritter. Adesso che ha lo studio, e che studio, a Chiavenna mi sembra rientrato nella categoria dei normali. Ma se lo ripenso a Canete lo rivedo sempre un po‘ ingob- bito, preoccupato di non picchiare la testa in un sof- fitto o contro qualche lampadario. Ho riflettuto su questo fatto, considerando anche che poteva essere una distorsione della memoria. Invece no: perché ho capito che andava pian piano assumendo le carat- teristiche dei suoi soggetti. Di quelli del periodo che chiamerei di Canete: uomini cioè che vivono tutto il giorno con la montagna addosso.
La montagna li è dappertutto: di sopra, di sotto, di lato. Addosso. E quando annotta non è perchè tramonta il sole: sono le montagne piuttosto che si chiudono una nell‘altra, e buonanotte al secchio. Io stesso, in una delle tante sere in cui lo siamo andati a trovare, mi sono sentito spinto a correre fuori dalla sua casa per ululare contro quel cielo di roccia. Non l‘ho fatto perchè sarei passato per ubriaco. Invece pativo la presenza dei fantasmi della montagna.
Se Bruno è riuscito a convivere con loro per tanti anni è perchè ha dell‘ironia: un fantasma sopporta tutto, tranne che l‘essere preso in giro e mandato a quel paese. Credo che qualcuno di loro si sia vis- to ritratto nei quadri di Ritter: immagino che gli sia preso un colpo, che abbia affilato le armi per tentare con ogni mezzo di ridurre a mal partito la testa del Bruno: in parte c‘è riuscito, non lo nego, il nostro ha infatti qualche capello bianco, segno inequivoca bile di spaventi, ma niente di più. Appena planato a Chiavenna ha anche ripreso l‘aplomb del cittadino e ha raddrizzato il rachide.
Ora, lassù, inurbato, dipinge policromatiche nature morte. Sembra che respiri dopo tanta tetraggine. Ma certi vizi non si eradicano mai del tutto. Così, nel corso del penultimo incontro, tra un „prò“ e l‘altro, io curiosando tra le sue carte, mi sono imbattuto in un‘altra montagna: un pizzo Lizun, piccolo picco- lo, dieci per dieci. Mi è venuto di fare il diagnosta, I‘infezione riprende. „Bruno – gli ho detto – ti stai per ammalare ancora di montagna“. „Non è vero – ha ribattuto – sono già ammalato. Ne ho fatti cento“. Poi me li ha mostrati, tutti insieme. Cento piccoli Lizun, ognuno diverso dall‘altro. Che cresceranno, per di- ventare montagna. Anzi, berg.
Non me la venga, non ce la venga a contare Bruno Ritter che questo è il pizzo Lizun: o meglio, che sia solo il pizzo Lizun e non piuttosto la montagna che nel suoi lunghi anni di galera ha dipinto e ridipinto, credendo infine di aver esaurito la sua missione. Galera, proprio, non c‘è errore. Poichè solo un galeotto può conoscere le infinite variazioni di ciò che nella finestra della sua cella si succedono nello stretto panorama che tutti i giorni, giorno dopo giorno, vede. È il Ritter galeotto è stato; non in senso stretto, poichè non gli si conoscono crimini da codice penale, ma in senso metaforico, negli anni della solitaria Canete; docce gelide, pallidi soli e ringhiosi profili di montagne, altezzose e acerbe modelle per tanti suoi quadri. Caro Bruno, credevi di non aver più montagne da dipingere? Guarda i cento Lizun di adesso allora, pensa agli altri rocciosi embrioni che fra un pò prenderanno forma di montagna la galera segna; c‘è chi ne esce rivestito di tatuaggi, chi con l‘ossessione di quella vista che sembra sempre uguale.
Ti saluto cordialmente
Bruno Ritter ha sempre saputo destreggiarsi consapevolmente tra astrazione, figurazione e arte non figurativa. Una siffatta distinzione non è mai stata per lui, pittore purosangue, di gran rilevanza. Ciononostante molte delle sue opere della sua ricca “oevre” si possono collocare mediante l’iconografia in specifici gruppi di lavori artistici, cosa che è stata fatta nella ricezione compiuta finora e anche ripetutamente ed esplicitamente dagli autori dei cataloghi del 1992 e del 1996. Con la repentina svolta biografica del 1982, quando Bruno Ritter lascia deliberatamente la città di Zurigo per trasferirsi in Valchiavenna, tutto d‘un tratto il motivo della montagna diventa pervasivo, influenzandolo profondamente: la montagna anche come metafora per l’isolamento e la solitudine, per l’angustia e l’ineluttabilità, per un’esistenza ombrosa. Un ulteriore filone artistico manifesta l’interesse virulento di Bruno Ritter per gli stati metamorfici, per la simbiosi di corpi e paesaggi, per l’antropomorfismo, dove si può parlare di paesaggi corporali e corpi paesaggistici. Un terzo, recente gruppo di opere si confronta con il celebre quadro di Theodore Géricault La zattera della medusa del 1819, già al centro di scandali, opera che con i suoi molteplici aspetti metaforici fu promossa a vero incunabolo per il primo realismo in Francia. Bruno Ritter ha attualizzato il soggetto trasponendolo dal mare lontano nella valle racchiusa dalle montagne. Ci limitiamo a questi cenni succinti su appena tre filoni artistici, racchiusi in un ben più ampio repertorio iconografico.
Quello che m’affascina nell’arte di Bruno Ritter, molto più degli aspetti determinati dal contenuto, è il suo rapporto virtuoso con la tradizione della pittura e del disegno: poiché non dimentichiamoci che Ritter è anche disegnatore e acquafortista di talento, che sa maneggiare pressoché con magistrale perfezione bulino e punta per incisioni. La frase: ogni quadro è dipinto da cento pittori, si applica a Bruno Ritter in modo pressoché esemplare. Egli è un esperto della storia della pittura e fa suoi i risultati dei grandi maestri – non superficialmente, ecletticamente o senza riflessioni in senso postmoderno, bensì confrontandosi in maniera oltremodo intensa, originale e inspirata. Attraverso la sua interazione con la pittura dei Nabis, con quella di Paul Cezanne, Vincent van Gogh, Giovanni Giacometti, Max Beckmann, Varlin e diversi altri, si è posto e si pone delle esigenze altissime, imperterrito mantiene la sua fede nelle possibilità della pittura e – ciò è l’essenziale – raggiunge così, risultati pittorici del tutto indipendenti che nella loro assoluta attualità sanno essere affascinanti e convincenti.
Es ehrt und freut mich, Ihnen nun den neuen Preisträger für das Jahr 2000 mit ein paar knappen Sätzen vorzustellen und zu würdigen. Nach Gaspare O. Melcher, Gregori Bezzola, Not Vital und Jacques Gui- don geht der «Premi Cultural Paradies» in diesem Jahr an den 1951 in Cham geborenen und seit 1982 im Valchiavenna arbeitenden Maler, Zeichner und Druckgraphiker Bruno Ritter.
Das grosse, einzelne Bild, das uns zur Beurteilung vor Augen stand und jetzt auch Sie, meine Damen und Herren, zur genaueren Betrachtung einlädt, zeichnet sich in mannigfacher Hinsicht als ein autonomes, in sich geschlossenes und in allen Belangen hervorragendes Stück Malerei aus. Wie könnte es auch anders sein für denjenigen, der die herben Stein- und Schlammgebilde des Chiavennatals als Lebensraum gewählt hat, jene Felsen, die 1618 durch ihren Absturz die Häuser von Piuro ins Erdinnere zurückgedrückt haben; jene Berge, die bei jedem Schnee- oder Regenfall, bei jedem Sommergewitter angstvoll und mit einem stillen Gebet hochblicken lassen. Ritter kommt als Mensch und als Künstler aus dieser Enge: der physischen Enge eines versenkten Tals, das den eigenen Horizont aufhebt, aber auch der geographichen Enge einer sich immer mehr verschliessenden Schweiz und der psychischen Enge einer selbstgewollten, aber nicht minder schmerzlichen Isolation. Es gibt also keinerlei Bruch zwischen dem Motiv des Flosses als minimalem Raum, der keine Ausdehnung, keinen Atem, kein Wachstum und im weiteren Sinne keine Entwicklung erlaubt, und den Ritter so wichtigen Themen des drohenden Berges oder der Badewanne, zwischen deren eiskalten emaillierten Wänden sich die Körper in entsetzlichen Stellungen winden. Dass die scheinbare Selbstverständlichkeit und «Leichtigkeit» des Bildes erst aufgrund eines langwierigen und bestimmt auch schmerzvollen Schaffensprozesses errungen werden konnte, scheint ebenso einsichtig wie das Wissen darum, dass dieses Gemälde – wie jedes andere auch – erst vor dem Hintergrund eines langen, unerbittlich und beharrlich geführten Malerdaseins entstehen konnte.
Es handelt sich (wenigstens vorerst und vordergründig) um nichts anderes als um Malerei als Malerei, um eine Malerei, die aus dem reinen Akt des Malens gewonnen wurde – nehmen und lesen wir das Bild als Bild. Insofern ist es nur folgerichtig, wenn wir von einem erkennbaren Gegenstand gar nicht erst gesprochen und die bemalte Fläche im Sinne der informellen Malerei beurteilt haben. Wenn wir dann bei genauerer Betrachtung oder besser: Im landläufigen Bemühen, stets etwas Greifbares, gegenständlich Bestimmbares ausmachen zu wollen, die Malerei mit ihrem Unten und Oben und mit ihrer augenscheinlichen Tiefenentwicklung beispielsweise mit Landschaftlichem assoziieren, triffl sich dies durchaus mit den Intentionen des Künstlers. Nur meint das Bild, so wie ich es lese, weit weniger das topographisch Erkennbare als vielmehr den geognostischen Blick auf das Innere, welches sich hinter und unter der Oberfläche verbirgt – insofern eine eigentliche Seelenlandschaft mit allen Höhen und Tiefen existentieller Befindlichkeit.
Bruno Ritter wusste stets und bewusst zwischen Abstraktion, Figuration und Ungegenständlichkeit zu lavieren. Eine derartige Festlegung war für ihn als Vollblutmaler nie von relevanter Bedeutung. Gleichwohl kann man im reicheri (Euvre die meisten Werke aufgrund ihrer Ikonographie ganzen Werkgruppen zuordnen, was von der bisherigen Rezeption denn auch wiederholt und explizit von den Autoren der Kataloge von 1992 und 1996, auch getan wurde. Mit der jähen biographischen Zäsur von 1982, als sich Bruno Ritter vorsätzlich aus der Stadt Zürich zurückzog und ins Valchiavenna übersiedelte, wurde unvermittelt das Motiv des Berges übermächtig und prägend: Der Berg unter anderem als Metapher für die Einsamkeit und Verlorenheit, für die Enge und die Unausweichlichkeit, für verschattete Existenz. Ein anderer Werkkomplex manifestiert das virulente Interesse von Bruno Ritter für metamorphotische Zutände, für die Symbiose von Körper und Landschaft, für Anthropomorphes, wo von Körperlandschaften und von Landschaftskörpern gesprochen werden kann. Eine dritte, jüngere Werkgruppe setzt sich mit dem berühmten und skandalumwitterten Bild Das Floss der Medusa von Theodore Géricault aus dem Jahr 1819 auseinander, das mit seiner vielschichti- gen Metaphorik zu einer wahren Inkunabel für den frühen Realismus in Frankreich avancierte. Bruno Ritter aktualisiert den Stoff und transponiert ihn vom fernen Meer in das von Bergen geschlossene Tal. Wir belassen es bei diesen knappen Hinweisen auf nur gerade drei wichtige Werkkomplexe innerhalb eines weit umfassenderen ikonographischen Repertoires.
Was mich bei Bruno Ritters Kunst weit mehr fasziniert als die inhaltlich determinierten Aspekte ist sein virtuoser Umgang mit der Tradition der Malerei und mit jener der Zeichnung: Denn vergessen wir nicht, dass Ritter auch ein begnadeter Zeichner und Radierer ist, welcher in geradezu altmeisterlicher Perfektion mit Stift und Stichel umzugehen weiss. Der Satz: Jedes Bild ist von hundert Malern gemalt, trifft für Bruno Ritter geradezu exemplarisch zu. Er kennt sich in der Geschichte der Malerei bestens aus und macht sich die Leistungen der grossen Meister zu eigen – nicht etwa oberflächlich eklektizistisch oder unreflektiert im postmodernen Sinne, sondern in einer äusserst intensiven, originären und inspirierenden Auseinandersetzung. Mit seinen Interaktionen zur Malerei der Nabis, zu jener von Paul Cezanne, Vincent van Gogh, Giovanni Giacometti, Max Beckmann, Varlin und manchen anderen setzte und setzt er sich selber einen enorm hohen Anspruch, hielt unbeirrt den Glauben an die Möglichkeiten der Malerei aufrecht und – das ist das Entscheidende – gelangt ‚ damit zu höchst eigenständigen bildnerischen Resultaten, die in ihrer unbedingten Aktualität zu faszinieren und zu überzeugen wissen.
Wenn sich Bruno Ritter mit dem Blick in den Spiegel selbst darstellt, knüpft er an die lange Tradition bedeutender Selbstbildnisse an, die in ungeschönter Konfrontation mit dem eigenen Gegenüber zwischen Resignation und trotziger Selbstbehauptung lavieren. Wir denken dabei – um bloss wenige Beispiele der Moderne zu nennen – etwa an Arnold Böcklins melodramatisches Selbstbildnis mit fiedelndem Tod (1872), an das Selbstbildnis mit Skelett (1896) von Lovis Corinth, an James Ensors Selbstbildnis mit Masken (1899) oder an Edvard Munchs Selbstbildnis mit skelettiertem Arm (1895). Thematisiert wird bei diesen schonungslosen Selbstbespiegelungen letztlich die latente existenzielle Gefährdung als Mensch und Künstler, der sich auch Bruno Ritter ständig ausgesetzt sieht – auch wenn er abwiegelnd meint, seine Selbstdarstellungen seien in erster Linie Studien, um die mit Licht und Schatten modellierte Körperlichkeit malerisch zu bewältigen oder um sich an ihnen von den Ärgernissen des Alltags abzureagieren. Jedenfalls kommt bei diesen unverhohlenen Selbstbefragungen die momentane Befindlichkeit in der Körpersprache, in der Physiognomie, im Pinselduktus sowie in der Chromatik ebenso unverschleiert zum Ausdruck wie in der Situierung des eigenen Ich im Verhältnis zum Raum, der entweder ins bodenlose Leere stürzt oder den Blick in die Tiefen des Atelier freigibt. Im Dialog mit den Artefakten des eigenen Tuns weist sich der Dargestellte nicht nur als Maler aus, sondern verortet sich mit jenem intimen Ort, an dem die Genese des eigenen Kunstwollens vonstattengeht.
Nach Jahrzehnten intensiver Arbeit ist inzwischen ein immenses künstlerisches OEuvre entstanden, das verschiedene, inhaltlich zu determinierende Werkgruppen umfasst. Diese greifen vielfach ineinander und werden von Bruno Ritter in abgewandelter Form oder neuen Facetten und Abwandlungen immer wieder aufgegriffen, erweitert und vorangetrieben. Die Rezeption des Schaffens von Bruno Ritter auf Grund der zahlreichen Ausstellungen erfolgte zumeist kongruent mit dem Hervorbringen der unterschiedlichen Werkkomplexe. Parallel dazu ist in den kunsthistorischen Beiträgen wiederholt vom «Grenzkünstler» und vom «Pendler» die Rede, um den Künstler, mit dem spezifischen Mentalitätsraum des Bergells und des Val Chiavenna in Verbindung zu bringen, wohin es Bruno Ritter schon früh, 1982, von Schaffhausen und Zürich verschlagen hatte.1 Im Text Maloja-Chiavenna-Drift (1934) hat der Philosoph Ernst Bloch (1885– 1977) über dieses Tal gemeint, dass zwar «nicht alle Wege herab von vornherein trüb» stimmen, wo aber die Berge «in unglaubwürdige Höhe» wachsen und «jeden Blickbezug zum Boden» verlassen. Die Berge nehmen hier «fast jeden Raum zwischen sich und einem Himmel, wohin sie nicht so sehr ragen» zur Hälfte weg und sind «selbst Himmel geworden»: «es ist terminus 2 humanitatis.2 Gewiss: der Landschaftsraum, den der Künstler Tag für Tag von Norden nach Süden und wieder zurück durchmisst, wirkt sich auf das künstlerische Tun prägend aus. Aber von ebenso grosser Bedeutung erscheint mir für das Verständnis der Werke von Bruno Ritter das «Grenzgängerische» in der steten und fruchtbaren Auseinandersetzung mit den alten Meistern und der Tradition der Malerei von Matthias Grünewald über Rembrandt, Peter Paul Rubens und Pieter Bruegel bis zu Théodore Géricault3 und Paul Cézanne, um nur wenige, herausragende Beispiele zu nennen. Ich habe in früheren Beiträgen zu Bruno Ritter expliziert auf diesen Aspekt hingewiesen.4 So setzt sich Ritter die Messlatte bewusst sehr hoch. Auf Grund dieser Ambition resultiert indes eine höchst virtuose Malerei, die ihren Gegenstand mit adäquatem Pinselduktus, delikatem Spiel von Licht und Schatten, sorgsamer und frappanter Farbgebung sowie meisterhafter Komposition auf die Leinwand bannt. Im Weiteren bringt Bruno Ritter eine Malerei hervor, die bei aller Meisterhaftigkeit nie vordergründig ist, sondern stets hintersinnig und bedeutungsvoll.
Wenn sich Bruno Ritter in Selbstbildnissen ergründet, steht ihm das eigene Ich als Modell immerfort zur Verfügung, genauso aber auch das eigene, übervolle und scheinbar chaotische Atelier, seine unmittelbarste Umgebung, sein Rückzugsort im Erdgeschoss des Balbiani Palastes mitten in Chiavenna, wo er in der Abgeschiedenheit von der Aussenwelt – dietro le mura – seine Kunstwerke hervorbringt. Trotz der zahllosen banalen Gegenstände, die im Atelier herumstehen und angehäuft wurden – Mobiliar, Farbtöpfe, Gläser, Papierberge, Leinwände, Pflanzen, Staffeleien, Rahmen, Zeichnungen an den Wänden etc. –, erweisen sich die Atelierbilder als spektakulär: Malereien, die auf die sich ständig verändernden Lichtsituationen subtil reagieren, die der Stofflichkeit der Dinge Rechnung tragen und vor allem die sich im extrem schmalen Breitformat zum Panoramabild weiten. In der leicht verzerrten Perspektive wird eine umfassende Räumlichkeit evoziert, bei welcher der Blick auf das Naheliegende zum Blick auf die Welt gereicht.
Die Fähigkeit und Strategie Bruno Ritters, sich künstlerisch mühelos zwischen scheinbar unversöhnlichen Polen zu bewegen, zwischen Tradition und Moderne oder zwischen Figuration und Abstraktion, manifestiert sich auf eindrückliche Weise in der Serie grosser Tuschepinselzeichnungen, die so genannte «scholar’s rocks» darstellen: Von chinesischen Gelehrten erkorene, solitäre Felsen oder Steine, die der meditativen Betrachtung dienen. Sie zeichnen sich durch eine besondere Ästhetik aus, etwa indem sie überhängend und asymmetrisch erscheinen oder an eine Figur gemahnen, also anthropomorphe Züge aufweisen. Hier setzt Bruno Ritter seine Faszination für die chinesische Kultur, die ihn seit seiner Jugend umtreibt und der er im Rietbergmuseum in Zürich immer wieder frönte, in eigene Arbeiten um – und er siedelt seine Gelehrtensteine ganz selbstverständlich im Bergell an, beziehungsweise er findet sie dort 3 unverfälscht so vor. Im nuancierten Lavieren der Tusche zwischen Hell und Dunkel, zwischen akkuratem Umriss und chiarsoscuro zaubert Bruno Ritter atmosphärisch dichte und frappante Formationen auf das Weiss des Blattgrundes – und die Anmutung an chinesische Kunst amalgamiert zwanglos auch mit der Deutschen Romantik und ihrer Naturfrömmigkeit.
Die Landschaften von Bruno Ritter erweisen sich als aufgewühlte, nervöse Ansichten eines Tales, in dem das Dörfchen Piuro mit den Kirchtürmen richtiggehend zu versinken droht.5 Die Natur erscheint von einer derart apokalyptischen Bedrohlichkeit, dass Oben und Unten, Fels und Himmel, in ihr Gegenteil zu kippen drohen. Heraufbeschworen wird ein schroffer, enger Landstrich, in dem das Dunkel der Schründe von einem unwirklich visionären Licht flackernd erhellt wird. Eröffnet wird der Blick auf eine dräuende, abgründige Bedrohlichkeit, wo sich das Grübeln über das dem Existenzielle unweigerlich einstellt. Im Unterschied dazu offenbaren sich die Ansichten des Bergeller Dorfes Borgonovo zwar etwas anmutiger, wären sie nicht expressiv verzerrt, durch jähe Erschliessung der Tiefenräumlichkeit dynamisiert und von einer anderen inneren Erregung durchpulst. Die Landschaften widerspiegeln zwar auch die individuelle Psyche des Malers, aber ebenso eindringlich die Empfindsamkeit einer ganzen Talbevölkerung.
Der menschliche Körper in aussergewöhnlichen Haltungen und in den abstrusesten Verrenkungen fasziniert Bruno Ritter seit langem und fordert ihn immer wieder zu neuen Bildfindungen, etwa in der Serie Unschlaf oder Schlaflosigkeit. Auf der mühseligen Suche nach linderndem Schlummer erprobt der Körper die seltsamsten Stellungen im Bett, verkrampft sich in bizarrer Haltung, um sich wenig später in die nächste unbequeme Stellung zu wälzen. Ritter hält solche verschrobene Körperstellungen fest, um die inneren Spannungen und die Befindlichkeiten anschaulich zu machen. Diese Auseinandersetzungen mit dem menschlichen Körper in ungewöhnlichen Stellungen und Situationen gemahnt an die Malerei des Barock an, wobei sich Bruno Ritter dem pathetischen Gehabe und der Idealisierung verweigert. Im Gegenteil: Wenn es um den ungeschönten Kampf zwischen den Menschen geht, wird jede Intimsphäre rücksichtslos durchbrochen, und im rüden Übergriff auf den anderen geht es letztlich um Leben und Tod. Das Bestialische und Barbarische des unvermittelten körperlichen Zugriffs zeigt sich in aller Grausamkeit. Es sind groteske Szenen, bei denen – und das macht nicht selten die Spannung bei Ritters Bildern aus – das vordergründig Dargestellte fliessend ins Gegenteilige mutiert, wenn etwa das Ringen doch eher eine intime Tanzbewegung evoziert oder wenn sich die Gewalt mit der unverblümten Erotik verbindet.
Ein anderes wesentliches Thema der Malerei, das bis in die frühe Neuzeit und in den Barock zurückreicht und von Bruno Ritter in zeitgenössischer Weise aufgegriffen wird, ist das Boot mit Ruderern oder Schiffbrüchigen. Die kunterbunte Gruppe sich fremder Menschen sieht sich in der Enge einer Barke der drohenden Gefahr ausgesetzt und gibt sich in der Verzweiflung und 4 Ausweglosigkeit, dem Trotz und dem Bangen hin, was in der zwar expressiv überzeichneten, aber gleichwohl detailgetreuen Schilderung von Gestik und Mimik der einzelnen Insassen zum Ausdruck kommt. Wenn bei aufkommender Panik die Koordination aus dem Ruder läuft, kommt es im Kampf um das nackte Leben zu Gewalt gegen den Nächsten, auch wenn die ganze Bootsgesellschaft unweigerlich dem Untergang zusteuert. Bruno Ritter entwirft eine zeitgemässe Metapher mit gesellschaftlichem, sozialem und religiösem Hintergrund, wie sie seit dem Narrenschiff (nach 1490) von Hieronymus Bosch (Musée du Louvre, Paris) ihre Gültigkeit und Brisanz bewahrt hat.
Quando Bruno Ritter con lo sguardo allo specchio raffigura sé stesso si rifà a una lunga tradizione di importanti autoritrattisti che, in un confronto genuino con l’io che gli sta di fronte, si destreggiavano tra rassegnazione e ostinata auto-affermazione. Si pensi – per citare solo alcuni esempi dell’arte moderna – al melodrammatico Autoritratto con la morte che suona il violino (1872) di Arnold Böcklin, all’Autoritratto con scheletro (1896) di Lovis Corinth, all’Autoritratto con maschere (1899) di James Ensor o all’Autoritratto con braccio di scheletro (1895) di Edvard Munch. In ultima analisi, con queste spietate rimirazioni del sé allo specchio, affrontano, come uomini e artisti, una latente minaccia esistenziale, alla quale anche Bruno Ritter si vede di continuo esposto – anche se, minimizzando, ritiene che i suoi autoritratti siano in primo luogo degli studi, con i quali riuscire a determinare pittoricamente la fisicità modellata da luci ed ombre o dei mezzi con cui sfogarsi delle piccole seccature quotidiane. In ogni caso, tramite queste schiette interrogazioni di sé stesso, emerge nitido lo stato d’animo del momento, manifestandosi attraverso il linguaggio del corpo, la fisionomia, la pennellata e il colore, come pure tramite il posizionamento del proprio io in relazione allo spazio, il quale o si getta in un vuoto senza fondo oppure lascia la via libera allo sguardo nella profondità dell’atelier. Dialogando con gli artefatti del proprio operato, il raffigurato dimostra non solo la propria identità di pittore, bensì si identifica con quel posto d’intimità, nel quale ha luogo la genesi del kunstwollen (volontà o intenzionalità artistica).
Dopo decenni di intenso lavoro artistico, si è formata un’opera omnia immensa che comprende diversi gruppi di opere, da determinare a livello contenutistico. Questi gruppi, in gran parte, si sovrappongono tra loro e vengono continuamente ripresi, ampliati e portati avanti, in forma modificata o con nuove sfaccettature e variazioni, da Bruno Ritter. La ricezione dell’operato di Bruno Ritter, grazie alle numerose mostre, è avvenuta perlopiù in coincidenza con la creazione dei differenti insiemi di opere. Parallelamente a ciò, nei saggi di profilo storico-artistico si parla ripetutamente di «artista di confine» e di «pendolare» per stabilire un legame con la specifica mentalità regionale della Val Bregaglia e della Val Chiavenna, dove Bruno Ritter partendo da Sciaffusa e Zurigo si è 2 ritrovato già molto presto, nel 1982.1 Nel testo Passaggio Maloja-Chiavenna (1934) , il filosofo Ernst Bloch (1885–1977) ha scritto di questa valle che «non tutte le strade in discesa rendono tristi fin dall’inizio», ma sì, dove le montagne raggiungono «un’altezza inverosimile» e abbandonano «ogni contatto visivo con il suolo». Per metà, qui le montagne si prendono «quasi tutto lo spazio tra sé e il cielo, dove però non si innalzano così tanto», sono diventate «esse stesse cielo»: è terminus humanitatis.2 Senza dubbio lo spazio paesaggistico che l’artista attraversa giorno per giorno da Nord a Sud e ritorno, influisce incisivamente sul suo operato artistico. Della stessa grande importanza, però, per la comprensione delle opere di Bruno Ritter, mi sembra il «pendolarismo» nel costante e fruttuoso confronto con gli antichi maestri e la tradizione pittorica da Matthias Grünewald, passando da Rembrandt, Peter Paul Rubens e Pieter Bruegel fino a Théodore Géricault3 e Paul Cézanne, per citare solo alcuni esempi di spicco. In altri saggi su Bruno Ritter, ho esplicitamente messo in evidenza questo aspetto.4 Così facendo, Ritter si pone consciamente l’asticella molto in alto. Intanto, grazie a questa ambizione, ne consegue una pittura altamente magistrale che fissa i propri soggetti sulla tela con una pennellata adeguata, un delicato gioco di luce e ombre, una resa del colore curata e sorprendente, nonché una composizione magistrale. Inoltre, Bruno Ritter crea una pittura che, in tutta la sua perfezione, non è mai superficiale, bensì costantemente a doppio senso e significativa.
Quando Bruno Ritter si indaga nell’autoritratto, il suo io è sempre a sua disposizione quale modello, ma altrettanto lo è il suo strapieno e apparentemente caotico atelier; il suo ambiente più immediato, il suo rifugio al piano terra del Palazzo Balbiani in mezzo a Chiavenna, dove isolato dal mondo esterno – dietro le mura – crea le sue opere d’arte. Nonostante gli innumerevoli oggetti banali sparsi nel suo atelier e ammassati nel tempo – mobilia, vasetti di colore, bicchieri, cumuli di carta, tele, piante, cavalletti, cornici, disegni alle pareti ecc. –, i quadri dell’atelier si sono rivelati spettacolari: dipinti che reagiscono in modo sottile ai continui cambiamenti di luce, che tengono conto della materialità delle cose e, soprattutto, che si allargano da sottilissimi formati larghi in quadri panoramici. Nella prospettiva leggermente distorta, viene evocata una spazialità imponente, tramite la quale lo sguardo su ciò che è vicino ridonda nello sguardo verso il mondo.
La capacità e strategia di Bruno Ritter di muoversi, dal punto di vista artistico, senza alcuno sforzo tra poli in apparenza inconciliabili, tra tradizione e modernità o tra arte 3 figurativa e astrattismo, si manifesta, in modo grandioso, nella serie dei grandi dipinti a china, che raffigurano i cosiddetti «scholar’s rocks»: rocce o pietre solitarie scelte da eruditi cinesi, utilizzate per la contemplazione meditativa. Si distinguono per la loro estetica particolare, presentando, per esempio, sembianze pendenti e asimmetriche o che richiamano una figura ovvero che presentano dei tratti antropomorfi. Qui Bruno Ritter mette in pratica nel suo lavoro, il suo essere affascinato dalla cultura cinese che lo tormenta dalla gioventù e alla quale si abbandonava di continuo presso il museo Rietberg a Zurigo (e naturalmente colloca le sue pietre di eruditi in Bregaglia o, meglio, se le ritrova là incontaminate). Destreggiandosi con ricchezza di sfumature con la china tra luce e ombra, tra profili precisi e chiaroscuri, Bruno Ritter trasferisce come per magia formazioni stupefacenti, dense di atmosfera sul bianco sfondo del foglio ( e le pretese all’arte cinese si amalgamo con disinvoltura anche al romanticismo tedesco e la sua devozione per la natura).
I paesaggi di Bruno Ritter si rivelano quali sconvolgenti, nervose vedute di una valle nella quale il paesello di Piuro con il suo campanile preannunzia di sprofondare.5 La natura appare di una tale apocalittica minacciosità che l’alto e il basso, la roccia e il cielo fanno temere di ribaltarsi nel loro contrario. Evocando una zona scoscesa, stretta, nella quale l’oscurità dell’abisso viene rischiarata da una tremolante luce irreale e visionaria. Lo sguardo si apre su una minaccia incombente e profonda, dove il rimuginare sull’esistenziale inevitabilmente cessa. A differenza di questi paesaggi, le vedute del villaggio bregagliotto di Borgonovo si rivelano decisamente più amene, se non fossero espressivamente distorte, dinamizzate tramite una repentina creazione di una profonda spazialità e pervase da una diversa eccitazione interiore. I paesaggi rispecchiano certamente la psiche individuale del pittore, ma altrettanto incisivamente la sensibilità dell’intera popolazione della valle.
Il corpo umano in pose insolite e nelle più astruse contorsioni ha da sempre affascinato Bruno Ritter e lo ha spronato verso composizioni sempre nuove, come, ad esempio, nella serie non-sonno o insonnia. Alla travagliata ricerca di un sonno ristoratore il corpo sperimenta nel letto le più strane posizioni, si irrigidisce in pose bizzarre, per rotolare poco dopo nella prossima posizione scomoda. Ritter immortala queste posizioni bislacche del corpo per illustrare gli stati d’animo e le tensioni interiori. Questo confronto con il corpo umano in posizioni e situazioni inconsuete è un richiamo alla pittura barocca, 4 sebbene Bruno Ritter si neghi a patetiche affettazioni e idealizzazioni. Al contrario, quando si tratta della nuda e cruda lotta tra le persone, ogni intimità viene violata senza riguardo e il rude attacco ai danni di qualcuno è, in fin dei conti, una questione di vita o di morte. La bestialità e la barbarie del repentino intervento fisico si mostra in tutta la sua crudeltà. Sono scene grottesche, nelle quali – e ciò non di rado fa risaltare la tensione nei quadri di Ritter– ciò che è raffigurato in superficie muta fluidamente nell’opposto, quando, ad esempio, la lotta evoca piuttosto un intimo passo di danza o quando la forza bruta si unisce ad un erotismo senza fronzoli.
Un altro tema essenziale della pittura, che risale agli inizi dell’epoca moderna e al Barocco, il quale viene ripreso in chiave moderna da Bruno Ritter, è quello dell’imbarcazione con rematori o naufraghi. Il variegato gruppo di persone, estranee tra di loro, si ritrova in una barca angusta, esposto a pericoli imminenti e impossibilitato di trovare una via d’uscita, si abbandona alla disperazione, all’ostinato capriccio e all’agitazione, cosa che emerge nella dettagliata illustrazione di gestualità e mimica dei singoli passeggeri, nonostante il tratto decisamente carico. Quando, a causa del panico insorgente, la coordinazione sfugge al controllo, nella lotta per salvarsi la pelle, si arriva alla violenza verso il prossimo, anche se l’intero equipaggio naviga inevitabilmente verso il naufragio. Bruno Ritter concepisce una metafora attuale con uno sfondo sociale e religioso, come quella che si è mantenuta valida e dirompente a partire dalla Nave dei folli (dopo il 1490) di Hieronymus Bosch (Musée du Louvre, Paris).
Caro Bruno, grazie del libro. Ho rivisto un pò della tua pittura. Il tuo informale e colmo di tensioni: pare che tu pensi alla felicità, ma, in realtà, sei convinto che l‘uomo è in piena dissoluzione. Piacerebbe anche a me leggere mie poesie davanti ai tuoi quadri come ha fatto Ralph Dutli: in Italia lo faccio spesso, ma Sciaffusa e troppo lontana. Gli acquarelli di Sciaffusa sono intensissimi: sembrano percorsi della memoria delle cose più affettuose della tua vita. Si vede benissimo che anche tu sei un „pendolare“: vai, torni, attraversi valichi, strade, nuvole. Nelle ultime pagine torna la „figurazione“ – un vecchio amore - le case, gli alberi, le montagne. La serie del „pendolare“ mi pare interessante, come anche quella delle „lettere del medico francese (il „caso confinante“): le figure sulle vecchie parole scritte risuscitano i morti e rappresentano il commento più feroce contro tutte le guerre: tu ci disegni sopra per risuscitarle. La memoria delle cose da di- menticare non finisce mai. Il resoconto del medico francese torna a far rivivere tutti i suoi morti. E le guerra appare ancora più sporca. Vivi felice. Siamo troppo lontani per tentare una collaborazione ed io sto diventando troppo vecchio per muovermi. Auguri per il tuo lavoro. Un abbraccio.
L’insegnamento, le molteplici esperienze di vita e di lavoro italo-svizzere, il pendolarismo, anche quello tra confini, le mostre e le collaborazioni sono voci fondamentali per meglio definire il curriculum vitae di Bruno Ritter: artista attentissimo nella sintesi dei molteplici input accolti e nella successiva riproposta in chiave pittorica e grafica degli stessi, con cui egli formula la fondamentale interrogazione: e dopo ?
Intanto, ciò che colpisce del viaggio umano ed artistico di Ritter, a partire dalla natia Cham, proseguendo tra Sciaffusa, Neuhausen e Zurigo, fino ad arrivare alle valli Bregaglia e Chiavenna, è la costante ossessionata tensione nell’indagare le azioni e l’immobilità del tempo che, trascorrendo inesorabilmente, corrode l’uomo e al contempo lascia immutati quei silenzi montani costituiti da rocce, nevi, cieli e consuetudini umane comuni in tutte le vallate del mondo a cui egli appartiene.
La sovrapposizione, infatti, di volti raffigurati di tre quarti alla maniera di Rudolf Hausner, la sospensione delle atmosfere e i colori accesi propri dell’espressionismo realistico di Otto Dix, i mondi onirici di Ernst Fuchs e Wolfgang Hutter sono tutti elementi da tenere in considerazione nel percorso artistico di Ritter il quale offre i propri soggetti – specialmente quelli in cui le figure umane e il loro confrontarsi sono protagonisti assoluti – ad una sacralità sottolineata dall’impostazione delle tele in forma di trittici o dittici, come avveniva nella pittura tedesca del Quattro e Cinquecento, quella di Grünenwald o di Dürer per intenderci, racchiudendo e donando una innovativa posizione a quella umanità della montagna che diviene, nei suoi silenzi, nuova anima purgante del suo mondo.
Anche l’incontro con la pittura italiana, mediata dai contatti con i critici Giovanni Testori e Raffaele De Grada, è ispirazione dominante del progressivo percorso artistico di Ritter che, nei realisti degli anni Trenta della Scuola Romana, quali Mafai, Scipione, e nei referenti dell’avanguardia milanese, come Birolli, Carlo Levi e Aligi Sassu, o ancora nel Gruppo dei Sei di Torino e in Emilio Vedova, recupera, facendo propri e trasformandoli, fondamentali insegnamenti e nuove dinamiche d’ispirazione.
Ulteriore sguardo e conseguenti propulsioni di creatività Ritter li ritrova successivamente anche in quell’informale materico distillato da Morlotti, Chighine e Repetto, e ricomposto specie nella densità delle cromie e nella vibrazione della pennellata sfaldata e riscontrabile nei paesaggi montani, addolciti nella loro drammatica ed immobile entità fisica e psicologica.
Il suo stile, l’impronta della medesima pittura ed anche del gesto grafico, è sempre netto, non solo nell’esecuzione, ma anche nella padronanza di senso con cui rappresenta l’interiorità che in questo lavoro s’irradia.
L’effetto apparentemente ambiguo, se letto con attenzione e ricercandone una corresponsione con la propria sensibilità, genera una tensione ammirata, oltre che verso la risoluzione estetica, anche verso una più profonda proposta di riflessione. Tale modalità meditativa è resa pittoricamente in uno sfumare fino ad impallidire, e a quasi rendere abbacinante la realtà rappresentata e i soggetti, così da amplificarne la sensazione di sospensione nel tempo e favorendo così una percezione prepotente di silenzio: luogo cruciale della meditazione.
In Bruno Ritter, in cui le accese cromie della narrazione riconducono ineluttabilmente ad ispirazioni desunte dalla cultura espressionista di matrice tedesca e delle contrapposizioni di linee/luce, rimandano all’impronta catturata dalla conoscenza raffinata del segno grafico, è possibile leggere un sistematico modus indagatore con cui ricercare concrete, desiderate e credibili risposte interiori ancora, purtroppo, non soddisfatte pienamente dell’interesse pubblico.
I bianchi e i soggetti silenziosi, di cui mirabilmente evoca origini (per i luoghi) e tradizioni (per gli uomini), sono strumenti del linguaggio spinti a superare lo scoglio della pura materia dipinta, fino a darne forma albina, ricca di più denso significato se intesa in forma di luce e oltre l’immagine d’una formula. L’effetto è quello di trasformare la luce medesima in una modalità e possibilità personalissime di risposta alla struggente domanda interiore, che la montagna con le proprie barriere visive da sempre impone all’uomo che ivi nasce e vive.
L’Enge, il concetto di strettoia che, per la cultura svizzera, è definizione di chiusura geografica, umana e psichica, ha finalmente con Ritter una nuova opportunità di superamento, grazie alla propria esperienza, oltre che di pendolare tra confini, tra orizzonti e strutture formali, anche attraverso la sua proposta di soluzione: costruire l’opera per piani pittorici, dedicando all’espressività del gesto e della forma della natura umana il primo piano e relegando le risposte alla domanda ultima, quella ontologica, al piano di fondo. Ciascuno ha l’opportunità liberamente di poter completare da sé, mentalmente, e con ampio margine di spazio, senza l’incognita di tempo e spazio, il proprio orizzonte.
Ritter è, quindi, attento narratore sia dell’animo umano sia degli scenari naturali, di cui conosce profondamente dinamiche e segni, e dei quali sa cogliere, con uno sguardo drammaticamente spalancato, la intrinseca lacerante domanda che tende verso l’ignoto, e che trasforma l’intera realtà in una immensa fisica e mentale Enge, oltre cui si delinea la luce: la risposta.
Nel trittico Al bar (2009, 100x280 cm.) il vociare attento e silente di un anonimo luogo di ritrovo, appunto un bar, di un borgo di montagna descrive perfettamente l’atmosfera di una consuetudine tradizionale, di un sentimento e di un tessuto sociale in cui le proprie solitudini vengono condivise in una convivialità tutt’altro che manifesta, piuttosto malinconica e pervasa da un’attesa, da una domanda, che forse può avere risposta non espressa nello sfondo bianco dal quale emergono: per accenni, contorni indefiniti, figure e possibili altri luoghi dell’umanità.
Nei calici pieni o che stanno per essere riempiti c’è tutto il desiderio di creare e cercare un momento, un clima d’incontro lontano dai propri eremi; si percepisce nell’occasione ancora un certo imbarazzo, un muoversi impacciato ad aprirsi alla propria umanità preannunciato dall’incrocio di sguardi, in una espressività dettata dalla genetica di ciascun uomo della montagna. I volti dagli occhi profondi, sono tutti assorti, tesi ad un qualsiasi segno che inneschi il contatto in quella altrui umanità ricercata tacitamente che però la montagna, con le sue leggi, ha da sempre resa introversa.
Nel trittico Discorso chiaro (2009, 100x280 cm.), smaterializzando parzialmente la figura, Ritter lascia posto al convulso e motivato gesticolare delle mani, vive e più chiarificatrici assistenti della parola, cogliendo pienamente uno dei loghi dell’umano più densi, oltre che di segni, anche di teatrale espressività. Il volto non conta, si dissolve nella luce, ma risiede tutto nel movimento delle mani il piano della comunicazione emotiva, resa con coloristica energia e intensità materica. Le parole mute rimandano ad orizzonti e confini indefiniti, sfondo di innumerevoli parole che si perdono nell’oblio di chi le pronuncia per riempire vuoti interiori che tra le montagne generano grandi eco di solitudine.
L’artista svizzero, genialmente, in un imponente trittico, descrive l’assenza, il colloquiare concitato, il gesticolare motivato, in una vaga espressività dei volti che assumono minore importanza rispetto alla consuetudine di comunicare di un mondo come quello della montagna e al nebbioso-abbagliante orizzonte che sta alle spalle di ciascuno.
Pianazzola (2009, 100x120 cm.) per chi la osserva da Chiavenna, voltandosi verso Nord, appare come un pugno di case abbarbicate su un costone boscoso, per la precisione quello del Pizzo Alto. Bruno Ritter ne ha colto il paradigma pittorico, ricostruendo con un’istanza forte di nuvole basse e nevi candide, il luogo orografico e naturale, dove l’asperità, che conduce oltre il limite umano e geografico, diviene sinonimo di tensione verso un orizzonte di luce che promette il superamento del confine o certamente, almeno, apre la memoria e l’evocazione alla totalità. L’inerpicarsi della via asfaltata che l’uomo ha realizzato per raggiungere quel confine è, oltre che stupefacente, anche segno zig-zagante e denso per raggiungere una meta, sebbene piccola ed isolata, punto di partenza per l’ulteriore limes e per l’immensurabile poeticità del tema. La cupa e silente atmosfera dei boschi sono preludio alla luce, all’oltre.
La Veduta / Aussicht (2009, 100x120 cm.) montana – punto non precisato della Val Bregaglia – è costruita attraverso un piano di osservazione più alto rispetto alla più consueta visione di un paesaggio. L’espediente è decisamente voluto, affinché lo sguardo sia obbligato a tendersi più verso l’alto, alla ricerca di qualcosa o qualcuno, forse proprio se stessi e in una vaporosa e cosmica sperimentabilità.
Le sovrapposizioni inoltre di cromie più cupe, che allontanandosi si accendono di luminoso bianco sono nell’opera di Ritter indizio di speranza per il manifestarsi di una limpida verità; dalla profondità tenebrosa, a tratti tetra, della montagna più vicina all’uomo, costituita da boschi e prati. Infatti si è trasportati là, oltre il pendio, in quel confine fatto di cime innevate, verso un cielo denso, affascinante e minaccioso e, più in là ancora, verso quel candore di nuvole che non definisce il limite, anzi lo confondono e lo assorbono oltre il paradigma fotografico, ed anzi similitudine di una spontanea e metafisica ascesa.
Die Lehrtätigkeit, die verschiedenen Lebens- und Arbeitserfahrungen zwischen Italien und der Schweiz, das Pendeln auch zwischen Grenzen, die Ausstellungen und Mitarbeiten sind grundsätzliche Begriffe im Lebenslauf von Bruno Ritter: ein Künstler, dessen Aufmerksamkeit der Synthese der vielen aufgegriffenen Inputs und deren malerischen und grafischen Verarbeitung gilt, durch die er die grundsätzliche Frage stellt: und danach?
In dem menschlichen wie im künstlerischen Weg von Bruno Ritter, der ihn vom Geburtsort Cham über Schaffhausen, Neuhausen und Zürich in das Bergell und das Valchiavenna führt, fällt vorerst die stete obsessive Spannung auf, mit der er das Handeln und die Bewegungslosigkeit der Zeit angeht, die in ihrem erbarmungslosen Ablauf am Menschen nagt und gleichzeitig jene schweigende Bergwelt unverändert lässt, welche aus Gestein, Schnee, Himmel, in allen Tälern der Welt, eigene menschliche Gewohnheiten entstehen, denen er sich zugehörig fühlt. Die Überlagerung von Gesichtern, die in Rudolf Hausner-Manier zu drei Viertel gezeigt werden, die Aufhebung der Atmosphären und die leuchtenden Farben, die an den realistischen Expressionismus eines Otto Dix’ erinnern, sowie die Traumwelten eines Ernst Fuchs’ oder Wolfgang Hutters sind lauter Elemente, deren Bedeutung im künstlerischen Werdegang Ritters gewürdigt werden muss; er stellt seine Motive - vor allem dort, wo die menschlichen Figuren und ihr aufeinander Eingehen im Zentrum stehen - in den Dienst einer Sakralität, die durch die Form des Triptychons oder des Diptychons, wie sie in der deutschen Malerei von Grünewald oder Dürer im 15. und 16. Jahrhundert vorkommt, noch unterstrichen wird; darin verschlossen und angeboten ist eine neue Position für jene Menschheit der Bergwelt, die in ihrem Schweigen zur neuen reinigenden Seele ihrer Welt wird.
Auch der Umgang mit der italienischen Malerei, vermittelt durch die Kontakte mit den Kritikern Giovanni Testori und Raffaele De Grada, bleibt eine wichtige Inspirationsquelle in der künstlerischen Entwicklung Ritters; er holt sich bei den Realisten der Scuola Romana der Dreißiger Jahre wie Mafai und Scipione und bei den Hauptfiguren der Mailänder Avantgarde wie Birolli, Carlo Levi und Aligi Sassu oder auch beim Gruppo dei Sei aus Turin und bei Emilio Vedova ein Wissen und neue Inspirationen, die er sich dann durch persönliche und originelle Verarbeitung einverleibt. Einen noch anderen Blick mit noch anderen Anregungen findet Ritter später auch in der informellen auf Materie zentrierten Arbeit von Morlotti, Chighine und Repetto, deren Essenz er vor allem in der Dichte der Farben und im Vibrieren des sich auflösenden Pinselstriches neu konstituiert, wie man ihn in den in ihrem dramatischen und unbeweglichen physischen und psychologischen Wesen gemilderten Berglandschaften findet.
Seine Handschrift, die Spur des Mal- und Zeichengestus’ bleibt immer sauber und klar; nicht nur in der Ausführung sondern auch in der Sinnbeherrschung, mit welcher er die Innerlichkeit, die aus dieser Arbeit strahlt, darstellt.
Betrachtet man sie aufmerksam auf der Suche eines von der eigenen Sensibilität ausgehenden Verständnisses, führt die scheinbar zweideutige Wirkung über eine bewundernde Spannung nicht nur hin zur ästhetischen Auf-Lösung, sondern auch zu einer weit tiefer gehenden Reflexion. Dieser meditative Duktus wird malerisch dargestellt durch ein zunehmendes Abtönen bis zum Verblassen, als blendeten die dargestellte Wirklichkeit und ihre Gegenstände, so dass das Gefühl der Zeitlosigkeit verstärkt und die Wahrnehmung der Stille dominant werden: das Herz einer jeden Meditation.
Man kann in Bruno Ritter, dessen leuchtende Farbigkeit des Erzählens unweigerlich auf die Wurzeln der expressionistischen Kultur deutscher Überlieferung weist und dessen Spiel mit Licht- Linien die Spur einer tiefen und subtilen Kenntnis des Grafischen bezeugt, eine suchende Haltung erkennen, die konkrete, erwünschte und glaubwürdige innere Antworten zum Ziel hat, die leider noch nicht vollständig vom öffentlichen Interesse erkannt werden. D
ie Weißtöne und die schweigenden Gegenstände, deren Ursprünge (für die Orte) und Traditionen (für die Menschen) er so gekonnt heraufbeschwört, sind Sprachmittel, die auf die Überwindung der reinen Malmaterie zielen, hin zu einer an Bedeutung weit reicheren Weißheit, wenn sie als Licht und jenseits einer bildhaften Formel verstanden wird.
Die Wirkung besteht darin, dass das Licht an sich umgeformt wird auf eine höchst persönliche Art und Weise der Beantwortung jener verzehrenden inneren Frage, welche der Berg mit seinen 1 visuellen Barrieren seit jeher dem dort geborenen und lebenden Menschen stellt. Die Enge, dieser in der Schweizer Kultur mit der Bedeutung der geografischen Abgeschiedenheit behaftete Begriff, erhält mit Ritter endlich eine neue Möglichkeit der Überwindung dank der persönlichen Erfahrung als Pendler zwischen den Grenzen, zwischen formalen Horizonten und Strukturen, aber auch durch den ihm eigenen Lösungsvorschlag: das Werk über Malebenen aufbauen, von denen die erste der Ausdruckskraft des Gestus’ und der Form der menschlichen Beschaffenheit gewidmet ist, während die Antworten auf die endgültige, das heißt die ontologische Frage, in den Hintergrund gerückt werden. Der Betrachter hat die Möglichkeit, frei und selbständig in Gedanken und mit großem Spielraum den eigenen Horizont ohne die unbekannte Größe Zeit- Raum zu ergänzen.
Ritter ist also aufmerksamer Erzähler sowohl der menschlichen Seele wie auch der Naturszenerie, mit deren Regungen und Zeichen er sich zutiefst auskennt und aus denen er mit dramatisch aufgerissenem Blick die verzehrende Frage herausliest, deren Antwort ins Unbekannte weist und welche die gesamte Wirklichkeit in eine unendliche körperliche und mentale Enge verwandelt, jenseits derer sich das Licht abzeichnet: die Antwort.
Im Triptychon Al bar (In der Bar 2009, 100x289 cm) beschreibt das stille und aufmerksame Stimmengewirr eines anonymen Ortes, einer Bar eben, in einem Bergdorf genau die Atmosphäre einer traditionellen Gewohnheit, eines Gefühls und eines sozialen Netzes, in dem die eigene Einsamkeit in einer durchaus nicht sichtbaren Geselligkeit geteilt wird, die eher melancholisch und von einer Erwartung oder einer Frage durchzogen scheint, deren nicht ausgesprochene Antwort vielleicht in dem weißen Hintergrund zu finden ist, aus dem andeutungsweise, als unbestimmte Konturen, Figuren und andere mögliche Orte der Menschheit sich abheben.
In den vollen oder zum Füllen bereit stehenden Gläsern ist der ganze Wunsch zu sehen, einen Moment, ein Klima des Zusammenkommens abseits der eigenen Einsiedelei zu schaffen und zu suchen; eine gewisse Hemmung ist noch erkennbar, unfreie Bewegungen einer zögerlichen Öffnung dem eigenen Menschsein gegenüber, welche sich im Austausch der Blicke ankündigt und in einer Ausdrucksstärke, die auf den Ursprung eines jeden Bergmenschen zurückzuführen ist. Die Gesichter mit den tief liegenden Augen sind konzentriert und aufmerksam jeder Regung gegenüber, die einen Kontakt mit der stillschweigend gesuchten Menschheit stiften kann, welche die Bergwelt mit ihren Gesetzen seit jeher verschlossen gemacht hat.
Im Tryptychon Discorso chiaro (Offenes Gespräch, 2009, 100x280 cm) öffnet sich Ritter durch die teilweise Entmaterialisierung der Figur den hektischen und verständlichen Gebärden der Hände, auf deren Mitteilungskraft eher Verlass ist als auf das Wort, und erreicht damit einer der an Zeichenhaftigkeit aber auch an theatralischer Ausdruckskraft dichtesten Orte des menschlichen Wesens. Nicht das sich im Licht auflösende Antlitz zählt, allein die Bewegungen der Hände vermitteln den emotionalen Inhalt der farblich kraftvollen und materisch intensiven Kommunikation. Die stummen Worte weisen auf unbestimmte Horizonte und Grenzen als Hintergrund jener unzähligen Wörter, die im Vergessen des sie Aussprechenden verloren gehen, um die inneren Leerräume zu füllen, die zwischen den Bergen das Echo der Einsamkeit widerhallen lassen. Der Schweizer Künstler hat auf geniale Art in einem imposanten Triptychon die Abwesenheit dargestellt, das hektische Sprechen und die notwendigen Gebärden mit einem angedeuteten Ausdruck der Gesichter, deren Bedeutung hinter die Gewohnheit des Sprechens zurückfällt, in der Bergwelt mit ihrem neblig-blendenden Horizont, der sich im Rücken eines jeden abzeichnet. Pianazzola (2009, 100x120 cm) erscheint, wenn man es von Chiavenna aus nordwärts betrachtet, als eine Handvoll Häuser, die sich an einem waldigen Steilhang, dem von dem Pizzo Alto, festkrallen.
Bruno Ritter ist es gelungen, das malerische Wesen dieses Ortes zu erfassen, indem die tief liegende Wolkenschicht im Zusammenspiel mit den makellosen Schneehängen der orographischen und natürlichen Landschaft eine Form gibt, in der die jenseits des Menschlichen und auch des Geographischen weisende Härte für das Streben nach einem Lichthorizont steht, der die Überwindung der Grenze verspricht oder zumindest mit Sicherheit die Erinnerung der Ganzheit öffnet.
Der Kletterweg, den der Mensch sich zur Erreichung dieser Grenze gebaut hat, ist nicht nur wundersam sondern gleichzeitig dichtes und unregelmäßiges Zeichen für die Erreichung eines zwar kleinen und isolierten Ziels, das aber Ausgangspunkt für einen weiteren limes und für die unermessliche dichterische Qualität des Themas ist.
Die dunkle und schweigende Atmosphäre des Waldes ist Vorzeichen für Licht, für Jenseits. Die Veduta / Aussicht (2009, 100x120 cm) auf die Berge – auf einen nicht näher definierten Punkt des Bergells – entspringt einer höher angesiedelten Beobachtungsebene als bei Landschaftsaussichten gewohnt. Es handelt sich um eine bewusste Wahl, damit der Blick sich höher zu richten habe, auf der Suche nach etwas oder jemand, vielleicht nach sich selbst in einer luftigen und kosmischen Möglichkeit.
Die Überlagerung von dunkleren Farbschichten, die sich nach und nach zu einem leuchtenden Weiß entfernen, stehen in Ritters Werk für die Hoffnung auf eine klare, erkennbare Wahrheit aus der dunklen, teilweise düsteren Tiefe des dem Menschen am nächsten stehenden Berges, aus Wälder und Wiesen. Man wird dorthin, jenseits des Hanges geführt, in diese aus schneebedeckten Gipfeln gebildete Grenze hin zu einem dichten, faszinierenden und bedrohlichen Himmel und noch weiter zu dieser Wolkenweiße, welche die Grenze nicht absteckt sondern im Gegenteil verwischt und jenseits einer fotografischen Absicht aufnimmt und zur Metapher für eine sich ergebende und metaphysische Erhöhung wird.
Es beginnt beim Berg.
Der Berg als Bedrohung und Zersetzung, Motiv der Isolation, Einsamkeit, Ursprung des Wahnsinns und der Verzweiflung. Auf dieser problematischen Situation baut sich die Malerei auf, äussert sich über Hass und Liebe zur Natur, zerstörende Kraft und mächtige Begleiterin. Der Konflikt dieser Motive bestimmt das Werk Ritter‘s. Bedrängende Abhänge, wo der Fels Wahnsinn bedeutet, in welche sich der Berg-Mensch zum Existenzkampf und zum Ueberleben rüstet.
Es gibt Momente, wo der „Gefangene“ aufgibt, wahnsinnig wird und (ab-)stürzt... Im Innersten zerrissen, noch in-sich-gebeugt, mit dem allerletzten Versuch sich zu wehren, mit der eigenen Realität fertig zu werden, springt er ins Leere . Jedoch der Mensch wächst und lernt. Der drohende Berg vereinigt sich mit dem Menschen: Ohne die vergangenen Konflikte zu vergessen, wird er im Berg eingebettet und bildet mit ihm eine Einheit. Der seelische Zustand des Schreibers für die Kraft, die Stimulanz in dieser Kunst, nährt sich an Eindrücken und Gegebenheiten, auch autobiografischen, welche sich aus der Vergangenheit erheben und wieder erwachen. In den stürzenden Figuren löst sich die Erinnerung an die „Selbstmörder“ von Canete, im brohlich, schattigen und engen Tal, wo Ritter die Athmosphäre vom Berg aufgenommen hat. Der Berg, das dominierende Motiv, wird in riesigen Figurenbildern festgehalten, neutrale Körper, ohne genaue Merkmale. Es entstehen „impressionistische“ Berg-Landschaften mit Figuren. Kompositionen mit warmen, heiteren Farben, nie ohne dramatische Spannung, „Gelb“, ein kreischendes, disharmonisches Gelb. Körper von Frauen in riesigen Formaten, eingezwängt in die Badewanne, oder einfach hingelegt in alltäglicher Bewegung. Die einstige Spannung, welche sich im Gegenstand ausdrückte ist nun der Farbe und der Form gewichen: Spannung und Dramatik springen zwischen Fläche und Volumen. Die neueste künstlerische Phase Ritter‘s ist noch interessanter und komplexer. Es handelt sich um die Erarbeitung eines monumentalen Werkes, welches sich annähert an das berühmte Werk Théodore Géricault‘s, Le radeau de la fregatte La Méduse. Nach seinen Glorien- und Heldenbildern konfrontierte er die Welt mit einem Bild von Tod und Verzweiflung, ein Werk der Zeit, welches das rein chronistische, des Unterganges des Floss‘ der Meduse, überwindet, um das Leiden und die Angst des Menschen offen zu legen. Ritter auf seine Weise - Es erscheinen tatsächlich Motive der Vergangenheit, eigentlich formale Motive, nervöser, bestimmter Strich, eine pastoser Pinselauftrag - gibt dem ewigen Ueberlebenskampf, der Rivalität des Einzelnen gegen die Gruppe (Masse), der Religion, Stimme. Sein Bild wird zur Zeitgeschichte, politisch, erotisch und psychisch. Es sind 15 Leinwände auf welchen der Künstler die Bestimmung des Einzelnen portraitiert, in seiner Hoffnung und Verzweiflung, im Lerben und Tod. Das Formatz ist hoch und schmal, wie ein Bergtal. Die Spannung ist stark, die Gestaltung wirkt gefangen und erzwungen im Bild. Die monumentalen Körper, bestraft im engen Raum des Bildes, sie kämpfen gegen ihr Format. Es sind gemalte Körper in verzweifelten Haltungen, welche die bizzarren Formen des Gebirges erinnern, aber auch den menschlichen Willen zeigen, den intensiven Wunsch nach Bewegung, des eigenen Raumes, des Ueberlebens. Das Element der Religion setzt hier ein, im immerwährenden Kampf, der Dramatik der Unendlichkeit. Die Protagonisten sind Hinterbliebene, Gefangene, Ertrinkende in der Geschichte mit entkräfteten Körpern, nach Oben gerichtet, mit den Händen vor dem Gesicht, verängstigte Figuren, die ihre eigene Tragödie in die Welt schreien. Einsame Individuen, von Konflickten und Ideologien ausgeschlossene, Menschen unserer Zeit, Zeugen von Kämpfen und Kriegen. 15 Bilder, die Zeugnis ablegen vom menschlichen Prozess des Ueberlebens. Es ist die Bewegung des Meeres, der Wellen, des Individuums, der Masse, der umgebenden Natur und ihrer Farbe. Das Bild in die Länge gezogen und schmal, wird zum Altar auf welchem das Leben, sowie die ewige Geschichte der Einsamkeit und des Nicht-Verstanden-werdens hingegeben wird.
Bruno Ritter è nato a Sciaffusa, in Svizzera, il 20 dicembre 1951. Diplomatosi alla Scuola d‘Arte di Zurigo, ha insegnato per qualche tempo figura e incisione in quella città e a Winterthur, prima di dedicarsi interamente alla pittura. In sieme a questa decisione sono maturati in lui il distacco dall‘ambiente urbano svizzero e la necessità di autoisolamento per una severa ricerca formale i cui esiti, nelle opere più recenti, ap paiono perfettamente delineati. Il punto di partenza di Ritter è il grido di Munch. Quel Grido del 1893 ha attraversato tut ta la cultura dell‘espressionismo tedesco, ha macerato le carni delle figure di Schiele, ha da to violenza al colore di Kokoschka e oggi prolunga la propria eco nella pittura di Ritter. Corpi dalle carni macerate, sfatti; bocche che gridano, disperatamente mute; uomini piegati nella degradante posizione del quadrupede; bestie nere che passeggiano nei quadri come enormi ombre inquietanti, montagne come legame tra cielo e terra, punto di fuga dalla realtà sociale e solido ancoraggio alla realtà naturale; anelito alla penetrazione sensuale della natura, solipsismo nei rapporti tra gli uomini, freddezza pietrificata della morte, atea pietas: questi al cuni temi ricorrenti nella pittura di Bruno Ritter, che oggi vive in una piccola frazione di Villa di Chiavenna appollaiata fra le balze della Bregaglia. Se le vie formali tentate finora da Ritter (dal realismo classico all‘informale, attraverso la su zione di tutti gli umori dell‘espressionismo mitteleuropeo) sembrano procedere per successi ve fratture, rinnegamenti e pentimenti, pure identica rimane la cifra stilistica: lo stridio e talora il grido die colori (sia nell‘accostamento, sia nella pennellata, sia nel loro rapporto con la superficie ruvida come la carta da pacco), la sottile vena caricaturale alla Grosz, I‘ironia negativa, I‘agitata inquietudine e gli incubi di uomini la cerati fra condizione subumana e aspirazione oltreumana, la naturale eleganza del segno e il notevole senso della composizione formale, ca stigati dal grido del colore che rivela a sua voltà insospettate armonie, mentre la tensione nega tiva del pensiero non si rovescia mai in catastro fe del segno artistico.
Con Ritter il paesaggio valtellinese perde il senso lirico che gli avevano conferito i pittori formatisi nella cerchia di „Corrente“ e che dall‘iniziale cubismo picassiano si erano orientati in seguito verso i fauves, Matisse e l‘espressionismo francese. Non c‘è più ombra di lirismo in questo disincan tato paesaggio chiavennasco di Ritter. Il suo espressionismo, se ha il proprio precedente cul turale immediato nell‘espressionismo nordico del Novecento, ha però le sue remote e coscienti ascendenze in Rubens e in Rembrandt. Profondamente rubensiana e la carne cromatica della gigantesca figura femminile che schiaccia il lago e il paese in basso e si metamorfizza in alto con le montagne. Ritter nella sua personale via informale reintroduce un forte senso del chia roscuro e dell‘ombra e in ciò consiste lo specifi co richiamo a Rembrandt.
La grande figura di donna con le cosce divarica te che domina il quadro ha valenze psicoanaliti che. Ritter, che è anche raffinatissimo scrittore in lingua tedesca (e difficilmente traducibile), ha fornito ermetici parallelismi letterari a questo archetipo femminile della sua iconografia: „Si piegano di nuovo sopra la terra / dappertutto culi di donna, bleu scuro...“ E ancora: „Quale impressione mi fai, o donna d‘ombra! come ti mostri lentamente. Improvvisamente sei qui. Semplicemente, commovente qui! Fino a una nauseante, nuda presenza, qui. Poi lentamente ti trasformi, guardi verso l‘interno dell‘occhio e vi ti seppellisci. Per sempre, sempre di nuovo, ogni anno, alla fine di novembre tu vieni. Ogni anno in febbraio ti dissolvi, là, dove ti sò. Sino al prossimo novembre... Ti aspetto!“ Il tema dell‘ombra, è noto, ha una sua storia nella letteratura tedesca dalla Storia meravigliosa di Peter Schlemil di Adalbert von Chamisso, alla Donna-ombra di Hofmannsthal. La grande ombra corrisponde, in Ritter, al mistero dell‘ambiguo rapporto dell‘uomo con la donna e con la terra, insomma all‘“odi et amo“.
Personaggi: Il pittore svizzero negli anni Settanta girò l’Europa in autostop prima di ritirarsi in Val Bregaglia
Bruno Ritter: da Kerouac ai monti Mercoledì, 10 settembre 1997 „Provincia di Lecco“ (Cultura e spettacoli)
Chi mi ha parlato per la prima volta del pittore Bruno Ritter è stato Andrea Vitali, qualche mese fa. La mia meraviglia nasceva da due constatazioni: che Andrea ne fosse tanto entusiasta e che lui, notoriamente incline a lasciare Bellano solo dietro pesanti minacce, si fosse spinto sino a Chiavenna dove si trova lo studio dell‘artista. Mi ero personal- mente fatto una „mia“ immagine di questo svizzero tedesco finito a dipingere le sue ossessioni dentro la Valchiavenna: poteva essere solo un orso scorbutico che sfogava sulla tela le maledizioni di un destino che l‘aveva costretto a condividere la sorte degli uomini. Invece mi sono dovuto ricredere. Bruno Ritter è un quarantaseienne simpatico ed estroverso calato completamente dentro quei colori che invadono con forza addirittura con violenza, le sue tele. Come accennato il suo studio si trova a Chiavenna, anzi nel cuore della cittadina, proprio dentro quel castello che ne è il simbolo. Ma ques- to è il punto d‘arrivo della parabola esistenziale ed artistica di Ritter, si deve partire da Zurigo per conoscere questo singolare pittore.
A Zurigo Ritter ha le prime esperienze artistiche sul filo di una vita ancora divisa tra il lavoro (grafico prima, insegnante poi) e la pittura. Essendo nato nel 1951 deve per forza fare i conti con quella beat generation che segna sicuramente la sua giovinezza. È sull‘onda, del fascino letterario ed esistenziale di „On the road“ di Jack Kerouac che gira mezza Eu- ropa in autostop o si acquatta nei locali non sempre rispettabilissimi di Zurigo a disegnare quasi di nas- costo le facce di quegli animali notturni che li popolavano. La svolta avviene nel 1982. „Avevo quattro soldi in tasca – ci dice ridendo – potevo vivere un mese in una grande città o un anno in montagna. Ho scelto la solitudine più completa, sono finito a Canete, in ValChiavenna, dove l‘amica d‘allora aveva una casa“. Canete è un paesino di quattro case che il sole d‘inverno dimentica, un taglio netto con Zurigo o Sciaffusa, la scelta radicale di chi vuole dedicarsi anima e corpo alla pittura. „Era una vita appartata in tutti i sensi, condividevo l‘isolamento di quei contadini, pochi, che ancora ci vivevano ed assistevo alla loro disperazione, alle loro fatiche, ai suicidi, a quel strappare la vita ad una montagna dura, sorda, quasi ingrata.
Nascono qui quei grandi quadri come „Colui che torna a casa“, o la „Testa/Montagna“ dove le cime di montagne severe, quasi in timorenti si confondono con figure umane ingobbite dalla fatica se non addirittura disperate. Un ciclo questo che trova il suo approdo in una monumentale opera intitolata „Un tema barocco“ ispirata a „Le radeau de la frégate la Méduse“ di Théodore Géricault. Qui il senso della catastrofe esplode in un groviglio di carni in bilico tra la morte e la vita di cui la zattera è l‘ultimo appiglio.
La pittura di Ritter si impasta di un groviglio inesplicabile tra colore e materia laddove emerge su tutto un uomo divorato dal desiderio di sopravvivere a se stesso . „L‘alpigiano – ci dice – non fa lo jodel perche prova gioia, ma perchè ha paura“. In questa secca battuta c‘è tutta la disperazione di quegli uomini che sono aggrappati alla loro montagna, che ne sono avvinti come all‘ultima zattera in mare aperto. Che poi la montagna ricambi questo cocciuto resistere è solo una speranza ed è qui che esplode la disperazione. Oggi Bruno Ritter non vive più a Canete. Si è sposato ed abita a Maloja in Svizzera, ad una ventina di minuti da Chiavenna dove tutti i giorni si reca nel suo studio.
Anche la sua pittura cerca nuovi spazi a conferma di una indipendenza e di una curiosità estetica che non hanno vincoli. Riempiono attualmente il suo atelier grandi tele di nature morte, di interni che riflettono una luce ed un colore che è proprio della felice ispirazione del loro autore. Testimonianza questa di quanto indovinata sia stata una scelta che l‘ha visto isolarsi da ogni contaminazione per seguire la propria strada. Ed oggi a Chiavenna alle porte di quel lago di Como che è a due passi da Milano e nel contempo sempre vicino a quella Svizzera che è la sua terra Ritter porta avanti il suo la voro di uomo di confine che lo accomuna a tanti altri artisti. Ricordo che Primo Levi sottoline- ando la sintonia con altri amici scrittori come Mario Rigoni Stern, Nuto Revelli e Fulvio Tomizza ne sottolineava entro le grandi differenze, l‘aspetto comune, quello di essere cioè scrittori di frontiera. „Rigoni Stern è cimbro e ci tiene molto, io sono ebreo. Nuto Revelli è occi tanico e Tomizza è istriano.
o credo – concludeva Primo Levi – sia importante di sporre di un‘esperienza molteplice; l‘italianotipo dispone in fondo di meno materie prime di noi periferici, vive meno contrad dizioni“.
Bruno Ritter sarebbe piaciuto a Testori, in tanti suoi quadri esplode un urlo che lo avvicina addirittura a Bacon, ma sarebbe inutile cercare somiglianze e parentele, la sua pittura ti prende perchè unica, an- darla a vedere in quel di Chiavenna è sicuramente esperienza proficua. Del resto un uomo che lascia i wurstel per i pizzoccheri dimostra gia di valere qualcosa.
Se il Lizun mi dice qualcosa? È la mia ‚‘grande ombra“, apparsami davanti agli occhi a 10 - 11 anni, quando rnia madre mi aveva mandato a Cavril a custodire le mucche. Li non c‘era più I‘lncanto del fondovalle che si gode da Coltura (sovrastata in più dal Piz Duan, grandioso), ma una parete lugubre e goffa. Una montagna assurda, sfasata, con un cocuzzolo ridicolo. Poi, via via cho trascorrevano i lunghissimi giorni dell’infanzia, incominciai a capire che era stato lui, il Lizun, ad incutermi timore e un senso profondo di nostalgia. Forse è per questo che ho ancora paura della montagna: perchè il Lizun mi aveva privato della „Heimat“, mi aveva esculso orizzonti, o meglio l‘orizzonte abituale, a ovest. Ora, dal giorno che mia figlia, ancora piccolina, mi ha mostrato il Lizun come un enorme seno con tanto di capezzolo („grande tetta“?) credo che il Lizun non mi dica più niente. Ma non può essere così, perchè ci sono cento Lizun ritratti da un amico...
L’ho incontrato per la prima volta nella chiesa riformata di Maloja. Era seduto con Maja in prima fila. Me lo presentò lei con quell’argento vivo addosso e i capelli ricciuti, a cespuglio È il mio amico di Sciaffusa. Il giovane lungo e dinoccolato era Bruno Ritter. Dopo la Scuola d’Arte di Zurigo era stato per qualche anno insegnante di disegno in un liceo, poi, di punto in bianco, avevano preso la decisione di cambiare, di venire in zona . Tutte queste informazioni Maja me le comunicò prima che iniziasse il concerto. Non mi ricordo che tipo di musica, ero troppo preso dal „venire in zona“, cioè qui, ma dove?
Da quel lontano 1982 Bruno ha cominciato a marcare la sua presenza „in zona“, stabilendosi a Canete (Italia) nella casa dei genitori dell’amica a pochi chilometri dalla frontiera svizzera di Castasegna. Prima conoscevo il paesino –addirittura suddiviso in Canete di Sopra e Canete di Sotto- solo intravedendolo dalla strada principale per Chiavenna. Con Bruno e Maja divenne un luogo, una meta di pellegrinaggio, in fondo non tanto per vedere cosa facesse, ma più per capire la scelta di stabilirsi da noi, in una valle incassata fra le montagne, nelle grandi ombre invernali che si avvertono già verso la fine di agosto. La montagna e la grande ombra continuano ad assillarlo anche al presente, una specie di attrazione-ripulsione nei confronti dell’abisso. Se non alla lettera sono esternazioni che ho sentito o piuttosto intuito direttamente da lui. I suoi critici affermano spesso che una delle principali fonti delle sue ispirazioni risiedano proprio in questo. Chissà.
E dal tempo di Canete la sua innata gentilezza, la sua signorilità e la sua modestia sarebbero rimaste intatte. Sopportava pure i miei bambini che spesso portavo con me. Lui non si infastidiva mai, smetteva il suo lavoro e si beveva vino, mescendo da un bottiglione che una volta vuoto mostrava un vetro rosso- viola, come le nostre labbra, la lingua e perfino i denti, quando si eccedeva.
Su una curva prima di raggiungere Canete, una sera Bruno si era rifugiato sotto un castagno per ripararsi dalla pioggia. Poco dopo avere ripreso il cammino dietro di lui aveva sentito un „casino“ (una parola che nel suo primo italiano ricorreva spesso). Un fulmine si era schiantato sull’albero sotto al quale si era soffermato poco prima.
E la scena per il concorso di pittura fra castagni secolari: Bruno con due colleghi pittori nelle brume del mese di novembre a dipingere scorci di Canete.
L’uomo venuto dal nord, dalla città, da un paesaggio di colline, più che continuare a stupirmi mi affascinava, forse anche perché inconsciamente gli ero infinitamente grato che continuava a restare, così che il mio istinto di evadere, il „fernweh“ si attutiva. Lui mi mostrava sempre cosa stesse facendo. Sì, m’interessava, era però la sua incredibile versatilità artistica a suscitare in me stupore e ammirazione: pittore (olio, acquarello, pastello, matita, inchiostro, tempera), incisore, ritrattista, fumettista, illustratore di libri.
Anche se gli spazi erano quelli che erano, e non solo a Canete, riusciva sempre a trovare un posto, magari anche lontano, per sistemare la stamperia. C’era inoltre quella sua ineffabile modestia, come il confrontarsi con le tecniche più diverse fosse la cosa più scontata. Solo più tardi avrei capito che questo suo atteggiamento derivava dal lavoro assiduo, tenace e passionale che continua ad essere una componente di Bruno. Credo di potere affermare che ha scelto di affidarsi al lavoro, fregandosene dell’ispirazione. Una scelta non di accanimento, piuttosto di dedizione regolare e continua a tutte le sue creazioni. Cosa hai fatto? Che stai facendo? Che intenzioni hai? La risposta è immancabilmente: lavoro...
Con il tempo sono poi stato gradualmente attratto da tante sue opere: dai quadri ai disegni, dalle incisioni ai fumetti, ecc. però francamente è sempre lui, l’uomo venuto dal nord a colpirmi più nel profondo. Sono convinto che il „radiologo“ -si manifesta soprattutto nei ritratti- sappia di questo mio modo di comportarsi. Una volta in un’intervista ha detto che ero un tipo difficile.
Sono il padrino di Sara, la figlia di Bruno e di Esther. Prima la famiglia viveva a Maloja in un appartamento al secondo piano della casa „al larasch“, nome questo che Bruno pronunciava tra il beffardo e il divertito, probabilmente associando i suoni all’asperità del paesaggio bregagliotto che lui ha percorso per anni, da pendolare all’inverso, Maloja-Chiavenna e viceversa. Ora Sara, Esther e Bruno abitano a Borgonovo (Svizzera).
Dall’Engadina al lago di Como, da Samedan a Bellano, Bruno ha lasciato dei segni con le sue mostre e i suoi atelier e non per ultimo con la sua presenza. A Chiavenna conosce tutti e tutti sanno chi è l’uomo venuto dal nord. Gli ho chiesto una lista, non delle opere e nemmeno delle mostre, ma degli atelier in cui ha lavorato. Ecco la risposta: 1. A Canete: l’avevo in una stüa a Canete di Sotto; 2. A Villa: di fronte al negozio d’alimentari, sulla curva, con stamperia dai Moro a Borgonuovo; 3. A Santa Croce (1986-1994) e stamperia a Chiavenna, via Spluga; 4. Nell’Albergo Bregaglia, 1991/92; 5. A Chiavenna, in una casetta bellissima...via Vanossi, con stamperia in cantina; dal 1994 a Piazza Castello, con stamperia. A proposito dei tanti „casino“ Bruno parla l’italiano e capisce il dialetto: mi piace ricordare Bruno che accompagnadosi con il banjo cantava in una cerchia di amici: Marina Marina Marina...(non ricordo)... ti voglio... (non ricordo)... sposar... (non ricordo)... oh mia bella mora... (non ricordo)... no non mi... (non ricordo)... non mi devi lololare oh no, no, no, no, no. Erano tanti anni fa, ai tempi di Canete.
Sette „Sonetti lussuriosi di Pietro Aretino“ con incisioni del pittore svizzero Bruno Ritter e composizioni musicali per liuto del chitarrista italiano Gabriele Palomba.
Pare che fosse figlio di una prostituta e di un calzolaio di Arezzo. Questo è perlomeno quanto, in tono laconico o con una compiaciuta punta di sarcasmo, si è scritto su Pietro Aretino (1452-1556), una delle più brillanti e controverse figure del Cinquecento. Se i suoi natali restano incerti, certo è comunque che egli fu un talento eccezionale, ammirato e nel contempo esecrato, nobilitato e bandito alla sua epoca. Le origini di Bruno Ritter risalgono invece alla media borghesia della Svizzera orientale. Nato nel 1951 a Sciaffusa, egli possiede una solida formazione in diversi settori dell‘arte grafica ed è stato per un certo periodo insegnante di disegno. Numerose mostre hanno testimoniato il suo cammino verso la pittura: una evoluzione continua, seppure incrinata da tensioni. Nelle sue opere degli ultimi anni, pittura e disegno sono associati con grande perizia tecnica e si compenetrano in libera creatività. Lo si potrebbe dire un classico: con i maestri della pittura, Ritter condivide il segno della matita, l‘impasto della paletta, il fascino dell‘eros e l‘autonomia spirituale. E l‘autonomia è anche il tratto che accomuna Ritter all‘Aretino: entrambi rifiutano l‘assuefazione borghese e il servilismo autoritario, come rifuggono da una serietà senza ironia e da un formalismo senza contenuto. Seguendo il suo impulso a rendersi intimamente libero, Ritter si è stabilito da anni nell‘appartata Valchiavenna. Anche se ora abita a Maloja (CH), il suo studio rimane fra le mura austere del vecchio castello di Chiavenna.
Agli amanti dell‘arte, Bruno Ritter propone un insieme tripartito con 7 Sonetti lussuriosi di Pietro Aretino. Si tratta di un album dal comodo formato di 33 x 16 cm, accuratamente rilegato in cartone con costola e angoli rinforzati, che contiene sette fogli con incisioni erotiche a fianco di altrettanti sonetti, scelti dall‘artista stesso. Ad ogni foglio s‘accompagnano, stampate su carta pergamena, le musiche che Gabriele Palomba ha composto per i sonetti. L‘esecuzione musicale, registrata sull‘acclusa cassetta, è stata realizzata dalla soprano italiana Ginevra (Manuela Galli), accompagnata dal compositore. Palomba si rifà all‘ideale musicale del Rinascimento e usa la tecnica manierista di un sapiente diminuito. Anche la cantante si attiene ad un‘interpretazione d‘epoca, con una voce scarsa di vibrazioni, rattenuta e spesso sincopata.
L‘elemento musicale, forse un po‘ freddino ma raffinato, sta ai testi ed alle incisioni come una sorellina minore alle maggiori. Ma i sonetti stessi, entro le severe norme metriche di rime e ritmo, traboccano di musicalità. L‘Aretino varia e arricchisce lo scarso vocabolario della sessualità con spunti arguti e sfrontati, attento alla fisiologia degli amanti. Per questo ancor oggi alcuni gli riconoscono il merito artistico, altri l‘accusano di oscenità.
Con i Sedici Sonetti, „la frusta dei principi, Il divino Pietro Aretino“, come il contemporaneo Ariosto lo chiama (Orlando furioso, XLVI, 15), l‘autore si attirò il discredito di certi ambienti, la lode di altri. L‘indignazione maggiore venne dal Vaticano, malgrado questo fosse, all‘epoca dell‘autore, tutt‘altro che incline alla castità e al pudore. Ma alcuni eminenti ecclesiastici, come per esempio il papa Clemente VII (Giulio de‘ Medici), attestarono la loro benevolenza al „poeta satirico per grazia divina“ con comprensione, simpatia e danaro. La cerchia dei suoi amici non era meno impressionante di quella dei suoi nemici. Per il Sansovino egli posò come modello per un evangelista, Michelangelo lo inserì quale san Bartolomeo nel suo Giudizio universale della Sistina, Tintoretto e Sebastiano del Piombo gli fecero il ritratto, come pure Tiziano, legato a lui da profonda amicizia. Scrittori come Rabelais, Shakespeare e Molière lo consideravano un maestro. Principi e nobildonne lo venerarono, come le cortigiane che lui sosteneva con generosità. Il poeta satirico che „flagellava“ il costume era temuto soprattutto dal clero e da quanti si ritenevano apostoli della morale.
I contestati sonetti s‘ispirano ad un ciclo di incisioni che Marcantonio Raimondi tirò dai disegni dei „diversi modi, attitudini e positure“ degli amanti di Giulio Romano, il pittore che portò a compimento l‘opera di Raffaello in Vaticano. I disegni e le incisioni originali sono andati persi da tempo. Con le incisioni stampate a Roma nel 1524, Raimondi fece un ottimo affare, ma lo pagò con la prigione. L‘autore dei disegni, Giulio Romano, si trasferì prudentemente a Mantova, dove attese in tutta tranquillità alla costruzione di Palazzo Tè. L‘Aretino venne a conoscenza dei famigerati disegni soltanto quando intercedette presso il papa Clemente VIII per la liberazione di Raimondi. In una lettera a messer Battista Zatti, egli riferisce così il fatto:
„Da poi ch‘io ottenni da papa Clemente la libertà di Marcantonio Bolognese, il quale era in prigione per aver intagliato in rame i Sedici modi, ecc., mi venne volontà di vedere le figure, cagione che le querele gibertine esclamavano che il buon vertuoso si crucifiggessi; e vistole fui tocco da lo spirito che mosse Giulio Romano a disegnarle. E perché i poeti e gli scultori antichi e moderni sogliono scrivere e scolpire alcuna volta per trastullo de l‘ingegno cose lascive, come nel palazzo Chisio fa fede il satiro di marmo che tenta di violare un fanciullo, ci sciorinai sopra i sonetti che ci si veggono a i piedi. La cui lussuriosa memoria vi intitolo con pace de gli ipocriti, disparandomi del giudicio ladro e de la consuetudine porca che proibisce a gli occhi quel che più gli diletta.“ (Venezia, 11 dicembre 1537).
Non è un caso che i sonetti e la loro storia abbiano affascinato Bruno Ritter, un artista che pone la figura umana al centro della sua ricerca: quasi un‘infatuazione primordiale che egli cerca di esorcizzare mediante la figurazione e che s‘accende davanti ad ogni nuova tela. Nascono così i suoi personaggi; il loro rapporto con l‘ambiente è spesso teso, alle volte allegorico, come quando essi si fondono con la montagna. Leggermente mosse nell‘elegante linea del disegno, le figure impongono con forza la loro presenza.
Aiutato da amici italiani, Bruno Ritter si è avvicinato al testo tramite una vecchia versione, di discussa autenticità. Dice di avere scarsa conoscenza del vocabolario sessuale nel suo dialetto tedesco, ma che in italiano tutto suona certamente meglio all‘orecchio. Certo è che l‘Aretino ha trovato in lui un interprete sensibile, teso nell‘espressione e levigato nel segno. Può tuttavia accadere che un‘opera raffinata cada sotto la censura, anche in tempi di dilagante e sfrontata pornografia; che il nudo dell‘artista desti più sospetti che le falsificazioni in grande formato, divulgate dalla pubblicità. A questo vuole sfuggire il piccolo insieme poetico-grafico-musicale di Bruno Ritter.
Caro Bruno, dopo tanto tempo ripercorro la strada che conduce quassù, fra le montagne. Una strada, lo sai, di cui conosco ogni pietra, ogni scorcio, e che pure mi riserva, ogni volta, qualche dettaglio inedito, qualche angolo stupefacente.
Per alcuni anni ho seguito il tuo lavoro da lontano, dall’altra parte del mondo. E adesso, qui nel tuo studio arroccato nel Castello di Chiavenna, mi sorprendi e mi confronti con un pezzo di autobiografia e con una “summa” del tuo fare pittura. Mi sento quasi un voyeur davanti a questa sintesi dinamica di esperienze personali, di personali sensazioni e sentimenti intimi, di ricerche pittoriche già plasmate da una sofferta maturità. Ma al tempo stesso mi sento a casa, anche. Di nuovo sulla strada, nel ritorno, lascio decantare le impressioni per poter dar loro forma sulla pagina.
Dipingere un quadro. Scrivere una poesia. Oppure: dipingere una poesia e scrivere un quadro. Non è forse inevitabile questo slittamento dei termini – tipico degli artisti estremo-orientali - di fronte alle tue opere recentissime e, in particolare, di fronte a questo tuo gruppo dedicato alla nascita, alla vita e alla morte?
Ci troviamo qui su un versante nuovo, eppure non ignoto né inatteso, della tua pittura. Qualche cosa doveva succedere dopo Un tema barocco, il ciclo di dipinti del 1996 ispirato a Le radeau de la frégate La Méduse di Théodore Géricault. Un ciclo che aveva sfiorato un limite, aveva raggiunto – per restare nell’ambito metaforico della montagna, della tua Bregaglia - come una sommità, un crinale, e spingeva a guardare giù, sull’altro versante, appunto.
Il cammino è continuato. Ti sei per così dire sgravato della figura e ti sei addentrato nel territorio della forma-non forma, di un’astrazione che non smette di suggerire, di alludere, di lasciar intuire. Uno scivolare della macchia nel segno, della pennellata nella grafia, della superficie nella massa, del vuoto nel pieno. Giocando – comunque e sempre – con un andare e tornare alla carne, alla terra.
Nascita – Vita – Morte è senza dubbio l’esito più importante da quel punto di svolta. Non a caso l’incarico di dipingere quest’opera – una tematica così assoluta, così impegnativa - giunge ora, in un momento che tu stesso avverti come “naturale” a questo punto della tua vicenda di individuo e dentro l’epoca che stai vivendo. È come se ad un tratto gli anni e gli eventi premessero per confluirvi. Il lavoro a questo ciclo – o meglio, il corpo a corpo con esso - diventa subito ineluttabile, diventa destino, diventa necessario.
Sì, perchè questa è un’opera su commissione, un’opera commissionata su un tema preciso per uno spazio preciso: la nascita, la vita e la morte devono essere “messe in scena” in una grande sala dai soffitti altissimi nella residenza privata di un mecenate di Ftan. È la prima volta per te, un punto di partenza anomalo, e mi racconti la storia con non celata, ansiosa eccitazione.
Mi parli del senso di sfida, innanzitutto. Lo sforzo di trasformare una commissione in un lavoro tuo. La fatica di concepire l’idea di un altro e di appropriartene, per diventare, infine, quasi committente di te stesso.
Poi della paura. La paura sacrosanta di non riuscire a fare tabula rasa di modelli pressanti, di non poterti sciogliere dal peso di Segantini, di non poter sfuggire alle atmosfere di Maloja. Pensi già di essere in trappola, e invece, all’improvviso, ecco che sorge fortissimo il bisogno di “espellere” e di organizzare il flusso autobiografico, di sommare e di sintetizzare l’esperienza pittorica. L’opera – la tua opera - chiede di farsi. Il resto sbiadisce sullo sfondo. La strada si apre.
Il tuo primo pensiero è l’acquarello. Un pensiero temerario, che mi incanta. Una sfida nella sfida, una provocazione alla stessa forma espressiva, alla materia e al materiale. Forse, per questi temi senza tempo, aneli a una pittura aerea, sottile, contemplativa, quasi zen, che riecheggi le delicate prospettive atmosferiche di tanti dipinti cinesi e giapponesi (in altro modo, già le Cento vedute del Piz Lizun del 1998 non rivelano forse un’assonanza con le Cento vedute del Monte Fuji di Hokusai del 1834?).
L’idea dell’acquarello, così intrigante sul piano sperimentale, viene scartata. Lo capisco. Ma questo aspetto meditativo orientaleggiante non smette di imporsi, pervade a diversi livelli le tue creazioni recenti e permea questo intero gruppo, sottinteso com’è da un gesto che è quasi ideogramma, da un vuoto che è elemento portante e spazio di raffinate velature, e da cui le forme, le masse paiono scaturire come evocate dalla forza stessa della meditazione. E poi c’è il libro. Questo libro. Un manoscritto, imperniato dunque sul segno, sul gesto, sulla calligrafia. Pagine come fogli di album, in cui pittura e grafia si sovrappongono in un lirismo estetico senza sbavature ma senza compiacimento, pagine che davvero non sai se siano scritto o quadro, o tutt’e due. Sarà un caso, questo tuo ammiccare all’oriente, o sarà un segno dell’epoca? (Penso a certe tele di Laura Owens, penso ai lavori del bahamiano John Cox, per indulgere anche in una mia realtà). Scrivi un quadro. Dipingi una poesia.
Cos’è allora quest’opera, di che cosa è fatta? Tutto è nuovo, eppure ritrovo subito le tue poetiche. Ritrovo quel tuo lavorare sui contrasti, sulle frizioni, Bruno Ritter | Kritische Texte sulle ambiguità sottili, sulle tensioni. Ritrovo, quasi, la donna-roccia, la pecora che si abbandona voluttuosamente al precipizio, la scabrosità delle carni come di granito, la rivolta delle masse in movimento.
Sono qui. Davanti a me le tele, tre tele che sono quasi un trittico. Quasi. Un libro che è quasi oggetto d’arte. Quasi. E tutto questo fuso in un’opera che è quasi installazione. Quasi. Posti uno accanto all’altro nel tuo studio, in questo spazio che è anche proiezione di un tuo spazio mentale, in questi giorni da apocalisse, i quattro elementi dialogano e si intrattengono come in una danza. Una danza ora quasi matissiana, da Joie de vivre, ma che subito dopo par mutarsi, anche, in una sorta di convulsa Totentanz.
Tre tasselli, tre formati diversi, tre tappe esistenziali (iconografiche e psicologiche) che funzionano - devono funzionare - simultaneamente come elementi singoli e come trittico.
Come già in Un tema barocco, anche qui le tre tele, leggibili singolarmente, stanno in strettissimo rapporto tra loro. Un movimento curvo, a parabola, le collega e le racchiude in un unico ritmo, un’unica frase musicale. All’interno di questa, o sotto, ci sono i rumori: diversi, peculiari a ciascuno dei tre brani. Fruscii, suoni di sottofondo, uno strusciare di scarpe, rumore di forbici e rumori attutiti, suoni stridenti in aspro contrasto, voci soffocate, brusii. Una cosa che, mi dici, vuole alludere ai rumori di un monastero solo apparentemente immerso nel silenzio, e che ti viene ispirata da un’opera di Beat Furrer, Die Blinden, una studiata, sperimentale cacofonia con testi di Neruda e di vari poeti. Non ricerca di armonia, bensì contrasti simultanei, esprimersi di tensioni. Il bisogno di spiritualità assediato da un mondo convulso. Colore, materia e velatura, piani definiti e piani indefiniti, movimento e quiete, spontaneità del segno e gesto trattenuto. E poi gli aspetti tattili, dal liscio al ruvido, dal duro al soffice.
La pennellata, il duktus, si fa vero mezzo di espressione del dramma proprio a ogni esistenza umana. Piccoli terremoti, vibrazioni telluriche, instabilità, cadute, direzioni che si interrompono, che cambiano repentinamente dando origine a giochi di forze e controforze: il bambino che preme verso il basso, la madre che lo spinge e lo trattiene, la vita che si innalza come un canto ma al tempo stesso par franare adagio adagio, la morte che conduce alla terra e insieme solleva verso l’alto, verso una dimensione eterea.
La genesi stessa delle opere è riconoscibile anatomicamente in tutte le sue tappe, in tutto il suo travaglio, dalla preparazione alle incrostazioni materiche. Il bianco – clinico, ospedaliero. Bianco su bianco in velature trasparenti, bianco come vuoto, poi bianco come colore, bianco come materia (non luce!), bianco che sembra davvero dare origine a tutte le cose e contenere tutte le tinte. Come se i rapporti cromatici di rosso e verde, di giallo, azzurro e violetto, le forme, le masse, i gesti non scaturissero che dal bianco (e che mi dici dell’importanza del vuoto nella pittura orientale, o del significato del bianco come colore funebre?). Un pensiero corre anche a Robert Ryman, ma è solo un attimo. Il tema del bianco, per te, non ha nulla di concettuale, nulla di minimal. La sua valenza è puramente esistenziale.
Dal bianco esplode la nuova energia, nascono le non-forme sfilacciate e aperte che poi, in parabola discendente, si concentrano infine in un grumo terroso, nella forma chiusa, scura e compatta del terzo dipinto. L’energia implode, ritorna all’uovo cosmico.
La Nascita organizza un equilibrio (precario) fra movimento verticale e movimento orizzontale. Ma ciò che più colpisce è quell’andare e venire, quel dentro e fuori, quel passaggio dal bidimensionale al tridimensionale attraverso il combinarsi di piani e di masse, così tipico della tua intera parabola creativa ma condotto, qui, a soluzioni estreme. È come l’andare e venire delle doglie, mi dici, ma è anche come un moto di risucchio, e poi contemplo la pancia che si svuota, i liquidi, riconosco la sensazione di bagnato, di viscido. Quando la luce radente si posa sulla superficie della tela quasi mi pare che il quadro sudi, o pianga: la materia si manifesta in sottili corrugamenti, come fini rivoli di sudore nella fatica del partorire e del nascere.
La Vita è un fotogramma alto e stretto, che in una composizione quasi alla Sam Francis sintetizza tutta l’essenza dell’esistere, la leggerezza e la pesantezza, il salire e il cadere, l’ilare e il drammatico. La tragedia e la commedia.
La Morte è una figura vagamente antropomorfa, una forma chiusa, dicevo, compatta. È una sensazione di humus, di terra umida. È una sensazione come di marcescenza e insieme di sublimazione. È un valore cromatico tutto giocato sulla stessa tonalità, con contrasti di opaco e di lucido. È un movimento fine, quasi un tremito, fatto di rilievi sottilissimi che paiono i corrugamenti di un tappeto sul pavimento (sì, lo vedo il tappetaccio del tuo studio, grigio, incrostato e polveroso, ma non hai forse pensato – non dirmi di no – anche ai corrugamenti della crosta terrestre – le montagne?).
Poi il libro. Un libro sulle opere, un libro con le opere, un libro opera. Perché questo bisogno? Perché la necessità di accompagnare le tele con una sorta di diario, con un codice che, paradossalmente, le decodifichi?
È chiaro che lo scivolamento nell’astrazione non è stato – e non è – indolore per un artista come te, legato come sei alla carne, alla roccia, alla figura come veicolo di espressione enigmatico e privilegiato. Ecco allora che il libro mi pare ribadire un contatto con il reale, diventa segno tangibile di realismo, quasi un terreno su cui puoi poggiare il piede per spiccare il salto. Libro come “dato reale” da cui le tele prendono avvio, di cui le tele si zavorrano e a cui le tele tornano in continui rimandi speculari.
Al tempo stesso, il libro incarna la necessità, altrettanto impellente, di lasciare traccia del processo creativo e delle configurazioni emotive e psicologiche da cui le tele sono scaturite. Un meccanismo che facilmente può apparire concettuale, ma che una più attenta riflessione (o una più approfondita conoscenza di te, della tua opera) rivela soprattutto viscerale. L’epoca sconvolgente e violenta che stiamo vivendo si riflette pesantemente sul nostro stato d’animo. Il senso di debolezza, di incertezza, di precarietà, già caratteristico della tua intera poetica, emerge in tutta la sua intensità e si coagula nel concetto di momento (e senz’altro, insieme, di memento). È l’idea di hic et nunc, dell’esserci ora e adesso, e fra un istante non più. Nel mondo sconvolto che ci circonda, la percezione del tempo si trasforma, il flusso costante si assottiglia, si secca, e lascia emergere null’altro che l’attimo. La realtà, le cose, lo stesso atto creativo si svuotano di significato e mi dici che è con grande sforzo che tu - l’artista – tenti di ridare un senso a te stesso e alla quotidianità. È da questa battaglia per un recupero del reale; per uscire dal grembo dello studio, che hai voluto con grande efficacia definire una placenta artificiale e protettiva; per poter assaporare un pranzo in un ristorantino di Chiavenna, gustare un bicchiere di vino, una sigaretta, una chiacchierata tra amici; per poter entrare nel caldo e nel fumo di un bar e lanciare un saluto al vecchio seduto al solito tavolo; è perché tutto questo possa tornare ad essere un valore che ti diviene improvvisamente importante “fare” il libro, affiancarlo alle tele, e lasciare che ne racconti a parole la complessa genesi così come i dipinti la raccontano segno dopo segno, incrostazione dopo incrostazione. Per dare voce alla fatica, al disagio, alla disperazione, all’incredulità, alle piccole vittorie, ai momenti più forti.
Naturalmente ci sono cose esprimibili solo nel quadro. Troppo difficili da verbalizzare. Ne consegue che il rapporto fra libro e tele è un rapporto di continuità, di specularità, ma al tempo stesso di tensione. In particolare di quella tensione che da sempre ti è cara (già dai tempi della donna-montagna): la tensione fra reale e astratto, fra figura e non-forma, fra dicibile e indicibile.
E poi che altro?
Lo spazio. Lo spazio è pre-esistente, è condizione data. È lo spazio che chiama l’opera, che la chiede, e che infine ne diventa elemento costitutivo. L’opera deve dargli un senso, e riceverne un senso, deve proiettarsi in esso e insieme introiettarlo, deve dialogare con esso, sopportare e affermare un suo rapporto dialettico con esso. Poi la luce. La luce che si modifica e modifica a sua volta lo spazio, lo plasma, dà vita alle tele in esso incastonate. La luce dello studio e la luce della sala di Ftan. Luce primaverile, luce autunnale, luce invernale, luce di mezzogiorno, luce del crepuscolo, luce calda di sole e luce bagnata di pioggia e di neve. Luce nota e luce che si può soltanto immaginare. Per ogni sfaccettatura luminosa nuovi giochi espressivi e nuove vibrazioni.
Cosa ne sarà, ora, di queste opere? Cosa accadrà quando anch’esse lasceranno il grembo familiare e protetto dell’atelier per entrare nello spazio a loro pre-destinato? Quale dialogo fra loro innescheranno? E con lo spazio stesso? E con la luce - sempre diversa a ogni ora del giorno (e della notte, e dell’anno)? Quali corde toccheranno in coloro che sosteranno a contemplarle o le frequenteranno giorno dopo giorno?
Domande alle quali tu forse puoi già dare risposta, ora che hai accompagnato i tuoi dipinti in quella loro dimora così particolare, li hai lasciati andare e li hai guardati volare in alto, su quelle vertiginose pareti per le quali li hai creati. Per me invece, mentre ti scrivo, sono domande ancora aperte. La curiosità è grande. Già adesso, però, so che questi quadri sono quadri in movimento, percepisco la loro vita interna fatta di luci, di ombre, di punti di osservazione sempre diversi. So che sono quadri vivi, che l’ambiente circostante plasmerà senza sosta così come plasma un volto.
„Quell‘uomo grida in cuor suo: ‚Io non domando per me nessun aiuto‘;quell‘uomo sa che la bilancia del riscatto chiede il sacrificio di tutta la sua vita e forse anche di tutte le sue speranze. Ma non vorrebbe morire, ecco tutto. Non morire“.
Leonardo Sinisgalli, Intorno alla figura del poeta
„[...]. Il confine fra autosoddisfazione e catastrofe è molto sottile“.
Elisabeth Dowdeswell, Direttrice esecutiva dell‘ Organizzazione ONU per l‘ Ambiente,"Tages Anzeiger", 18.11.1993 1
"Ein barockes Thema". Un tema barocco. E‘ così che Bruno Ritter intitola il suo monumentale ciclo di dipinti ispirato a Le radeau de la Méduse di Théodore Géricault. Un ciclo che si incastona dentro il suo percorso pittorico come un evento dalle vaste, complesse implicazioni, come autentica summa. Bruno Ritter si confronta – e ci confronta – con la catastrofe, le dà voce: è il disperato contorcersi e avvilupparsi dei corpi lividi, già putrescenti, ad avvincerlo; sono le membra contratte o tese in ultimi, tardivi spasimi di angoscia, sono i visi alterati dagli urli e resi infernali dalla luce acida, da ecatombe, ad intrigarlo. Già da tempo Bruno Ritter sente queste figure agitarglisi dentro, affollarsi disordinate alla sua mente, premere per trovare una via d‘uscita.
Già da tempo esse lo accompagnano nel quotidiano procedere, facendosi vieppiù echi del mondo, presenze necessarie che anelano a una forma. E quando, nel 1994, la rivista „du“ dedica il numero di febbraio proprio a questo argomento, alla catastrofe, ecco che il capolavoro di Géricault diventa destino, specchio, miccia. E‘ il momento, il silenzio si rompe.
Al centro una tela, un mare in burrasca che scuote un‘imbarcazione – la zattera – su cui tre figure si tengono in equilibrio. In alto, sullo sfondo, il segno forse di una nave lontana (o di un miraggio? E sarà la salvezza, poi?). Ai lati quindici pannelli alti, stretti, nei quali quindici corpi (quindici sono i sopravvissuti allo storico naufragio della Méduse) sono schiacciati in pose faticose, come colti nell‘attimo della sciagura o di una terribile battaglia, poveri grumi di carne pervasi da un potente, inconsolabile desiderio di vita. E poi due grandi teleri (uno dei quali diviso verticalmente da una giuntura centrale), in cui l‘ammassarsi delle membra par quasi riecheggiare il gorgo dei flutti; spicca nel primo (I) una verdastra, goyesca testa urlante dalla bocca nera spalancata in un afono grido – l‘urlo di Munch –, accento di altissima tragedia. Infine, ecco quindici ritratti, quindici volti in procinto di dissolversi in un nulla materico, in un ritorno al magma informe, e che pure combattono per non rinunciare al proprio esistere, mossi dall‘instancabile ansia di sopravvivere, vivere.
Non è nuovo, Bruno Ritter, al tema della catastrofe. Vi è, anzi, legato da lunga familiarità: essa è per lui Leit-motiv a un tempo pittorico ed esistenziale. Sin da quel momento-chiave che è La grande ombra (1990), il disastro è lì: incombe alluso dalla mano adunca della donna-montagna che in un attimo inatteso può ghermire il villaggio; lo evocano le successive figure in caduta, le tristi pecore che si abbandonano, quasi, alle nebbie soporifere del precipizio, i dormienti immersi nel „grande sonno“. E non potrebbe essere altrimenti per colui che ha scelto di vivere fra le aspre architetture di roccia e di fango della Valchiavenna, fra quei dirupi che nel 1618 franarono seppellendo le case di Piuro, risucchiandole nei visceri della terra; quelle montagne che ad ogni nevicata, ad ogni pioggia, ad ogni temporale estivo fanno alzare gli occhi con timore soffuso, con silenziosa preghiera, nella speranza di poter un giorno infrangere il cerchio del perpetuo crollare e ricostruire, crollare e ricostruire.
Un senso di costrizione intride tutto il percorso pittorico di Bruno Ritter e trova, qui, un suo monumento. E‘ il concetto - tipicamente elvetico - di strettoia, di Enge (per dirla con Paul Nizon, autore di un memorabile saggio che già mi è piaciuto citare in altra occasione a proposito di Ritter2 -. E‘ infatti in una Enge che Ritter cresce come uomo e come artista: nella Enge geografica di una Svizzera sempre più chiusa su se stessa; nella Enge fisica di una valle stretta e incassata che annulla l‘orizzonte; nella Enge psichica di un isolamento cercato ma sofferto. È con questa triplice costrizione che egli ha da sempre scelto di confrontarsi ed è da qui che scaturisce quella tensione da cui trae linfa il suo impulso creativo. La pittura di Ritter esprime un universo di solitudini e di melma, di spazi asfittici tradotti in pennellate materiche, quasi di sostanza geologica; formati di vertiginosa verticalità (siamo nella valle di Giacometti!) bloccano il movimento delle figure, le sigillano in silenzi inscalfibili, costringono talvolta in uno spezzato ossessivo.
Un concetto, quello di Enge, leggibile anche qui sul piano iconografico come su quello formale e strutturale. Non vi è infatti soluzione di continuità fra il motivo della Zattera come spazio minimo in cui non è possibile espandersi, respirare, crescere, in senso lato evolvere, e i temi, cari a Ritter, della montagna che sovrasta o della Badewanne fra le cui gelide pareti smaltate i corpi si torcono in posture da incubo. Montagna e zattera sono i due volti di una stessa strettoia, di una stessa minaccia, di una stessa tragedia; la lotta per sopravvivere può stemperarsi in follia autodistruttrice; l‘aspirazione alle vette può diventare fatale desiderio di abbandonarsi all‘abisso (e ben ce lo rammentano i drammatici ritratti di suicidi eseguiti da Ritter qualche anno fa, suicidi che si lasciano annegare nelle acque limacciose di un lago artificiale di montagna, quasi a tornare all‘oblio di un grembo).
E davvero la montagna è, in questo ciclo della Zattera, sempre paradossalmente presente: è la forma aguzza che par sottendere una cima innevata alta sopra il capo di uno dei sopravvissuti (Nr. III.8), come a ribadire una condanna; è l‘ammasso dei corpi che invadono la tela fino al limite superiore, impedendo allo sguardo di perdersi in lontananza; è il diffuso tema del mare inteso come materia oscura, opaca, impenetrabile, pesante; è il contorcersi delle figure che, come già nella serie delle donne-montagna, delle donne-ombra, paiono mutarsi in rocce antropomorfe, in aspri scogli che emergono dalle acque buie; è il colore della fanghiglia, del muschio e del granito; sono i formati da vertigine, veri emblemi dello spazio valchiavennasco.
Una poetica già propriamente ritteriana, dunque, che viene adesso ampliandosi, in un afflato universale, fino a fare del mondo stesso una Enge. È il mondo trasformato in villaggio globale, il mondo impoverito e omogeneizzato dei mass-media, percorso da asettiche autostrade informatiche, un mondo microcosmico in cui si scatenano i peggiori conflitti, in cui il singolo (singolo individuo, singola cultura) crede di poter sopravvivere solo annientando con forza barbara il diverso. Ed eccoli, allora, i volti dei sopravvissuti a questa insensata battaglia, i nostri volti: iterati volti in disgregazione, dai lineamenti incerti, impuri, sfaldati in materia primordiale, ridotti, si può dire, a elementi seriali di una composizione più ampia il cui disegno sfugge loro completamente.
Ritter fa proprio il dramma di una condizione umana che pone costantemente e spietatamente l‘uomo solo di fronte all‘ignoto, all‘ineffabile, all‘enigma, al limite stesso della propria ragione e del proprio essere (il monolite nero di Stanley Kubrick in 2001 odissea nello spazio, arcano e incomprensibile per la scimmia preistorica come per l‘astronauta del XXI secolo). Lo fa proprio, Ritter, e lo esplicita scegliendo „Ein barockes Thema“. E si capisce. Sì, perché la Zattera di Géricault rappresenta forse il punto culminante di un lungo percorso, un percorso che prende avvio nel barocco nero, vorticoso, il barocco che fuoriesce dal limpido rinascimento come un‘escrescenza oscura, sfondandone i confini, le prospettive, le regole con nuove e inquietanti visioni del mondo, con un nuovo senso dinamico dell‘universo, della terra. Barocco come sovvertimento, perdita di stabilità, di certezze. Barocco che da preciso momento storico si fa stato mentale, condizione esistenziale di impronta profondamente moderna e di sconcertante attualità in questa fin-de-siècle – e di millennio – in cui un‘umanità apparentemente trionfante si riscopre travolta da paure ancestrali, da superstizioni ataviche („mille e non più mille“), e si ritrova a vagare al buio sulle macerie del proprio raziocinio, delle proprie utopie.
Sopravviveremo, par chiedersi Ritter, alle nuove crociate, alle guerre tribali e fratricide, alle titaniche migrazioni che scuotono gli equilibri - interni ed esterni - delle società, al progresso scientifico che flagella l‘ambiente e va facendo di noi degli esseri denaturati, mutilati nel corpo e nello spirito? (E il suo sopravvissuto scheletrico [III.8], che si ripiega su se stesso come un feto già segnato da chissà quale devastante esperimento genetico, si eleva a monito, a memento).
Non è forse la terra stessa ad essere ormai zattera alla deriva in un universo al crepuscolo eppure ancora ermetico, inconoscibile? Non è forse, questo vano combattere per la vita, anche il lungo destino dell‘uomo moderno, un cataclisma interiore già illuminato dalle lame di luce di Caravaggio e di Ribera, dal loro sforzo di squarciare un nero che diverrà sostanza vieppiù portante nell‘estetica come nell‘anima, metafora e rumore di fondo che risuonerà, via via e in modo diverso, in Frans Hals, in Courbet, in Manet, e, sommamente, in Goya, il Goya delle Pitture nere della Quinta del Sordo, delle creature deformi sorte dagli inferi, e, ancora, nel Géricault non solo della Zattera, ma anche dei poveri pazzi monomaniaci condannati al „sonno della ragione“, al „grande sonno“?
E che questa sia la radice, il terreno per così dire concettuale su cui poggia il ciclo, ce lo conferma proprio il nero, quel nero che è, qui come in Géricault, sostanza bituminosa e accentratrice, che evidenzia i volumi e scava fra i corpi nicchie buie che tutto risucchiano come stelle morte, varchi sull‘insondabile. Attorno al nero si avvolgono le membra, nel nero svaniscono i volti di un‘umanità forse irredimibile e senza speranza di riscatto, condannata a restare aggrappata con tutta se stessa a una vita indecifrabile come i sopravvissuti alla zattera semisommersa, in un‘accozzaglia di arti, in un tanfo di piaghe, in balìa di un mare in tempesta e di una tempesta di sentimenti innominabili, di inconfessabili rancori. E soltanto il livore marcio, putrido, dei gialli e dei verdi, solo i rossi sanguinolenti, raggrumati sulle carni come vera e propria materia organica, interrompono qua e là la tenebra in una luce da fine del mondo, o, peggio, da day after; nemmeno i bianchi diafani, i gelidi azzurrini possono alleggerire il senso di inesorabilità, la mancanza d‘aria di uno spazio che fa delle tele stesse vere e proprie claustrofobiche zattere.
L‘intero fare artistico ritteriano, ribollente di sottili apocalissi, si coagula in quest‘opera che è insieme quadro e installazione, dominio della superficie e concetto spaziale.
Plasmato da questa serie di tele, lo spazio si fa quasi sacro, ieratico, si fa cappella, luogo di meditazione. Non a caso, l‘artista parla di Altarbild: l‘intero ciclo ubbidisce già strutturalmente a canoni pittorici religiosi. Abbiamo un polittico (un dipinto centrale, una scansione di pannelli laterali), abbiamo l‘allusione a un dittico e poi un telero che è, davvero, quasi pala d‘altare; infine, sorta di richiamo a una predella, ecco la sequenza di ritratti di piccole dimensioni. E poi l‘accavallarsi dei corpi in ammassi mostruosi, da cui trapela in filigrana tutta una tradizione pittorica da giudizio universale, da Michelangelo giù giù fino agli inferni del Medioevo nordico, alle tormentate carni di Grünewald.
Accento religioso, dunque, che qui – lungi dall‘ironia che già intrideva invece opere come Il lavaggio dei piedi (1984) – si colora di un misticismo quasi da New Age: confronto-scontro con l‘enigma di una vita che proprio nel momento del sacrificio supremo esplode in tutta la sua veemenza; con il mistero del flusso eterno di distruzione e creazione che possiamo contemplare ogni giorno come su un‘ara sacrificale (la vita che eternamente si sacrifica a se stessa), in cui tutto si trasforma e si trasfonde nell‘altro pur restando identico. Questo tema, da sempre colonna portante nell‘iconografia dell‘artista – le figure-roccia, le donne-montagna –, assume qui, nella sua monumentalità, valenza simbolica assoluta. Ecco allora che la tragedia compiuta, non più latente, dà infine adito a una speranza di catarsi, come il sacrificio reca in sé il seme della redenzione. Sulla scia di una simbologia antica, da viaggio nell‘oltretomba, il naufragio par farsi purificazione, rinascita. Salvati dalle acque, ricoperti di alghe, i sopravvissuti si volgono, nel pannello centrale (III.9), a una luce post-diluviale, una luce ancora informe, ma presente.
Géricault scosse un mondo di eroi con una tela di morte, distruzione, oscurità. Allo stesso modo, quelli di Ritter non sono più gli eroi della ragione e del progresso, soddisfatti ed ebbri di sé: sono i naufraghi di un‘era ormai ridotta a relitto, i reduci di un‘odissea ai quali sarà data, forse, l‘opportunità di toccare una nuova spiaggia, di intraprendere un nuovo cammino spirituale. Emblematicamente, Ritter mette in scena gli anni Novanta come collasso epocale: dopo, sarà il nulla – o un mondo nuovo.
Il senso di battaglia, di lotta e di eterna trasformazione ben si traduce, sul piano formale, in una tensione pittorica soverchiante. Sì, perché in questi dipinti converge in maniera cristallina anche tutta l‘intensa ricerca pittorica compiuta dall‘artista, tutta la sua riflessione sul fare pittura, tutta la sua evoluzione dagli anni Ottanta ad oggi.
Già da tempo i piccoli formati non bastano più a contenere lo slancio creativo. Ora è il singolo supporto, per quanto ampio, a rivelarsi inadeguato e a farsi, dunque, multiplo. In un gioco di formati verticali e orizzontali3 le tele si combinano, allora, per diventare installazione, dialogano l‘una con l‘altra, scandiscono lo spazio con ritmo quasi musicale – i tocchi acuti, staccati come brevi gridi, dei pannelli alti e stretti, l‘accordo ricercato dei quindici volti, e poi il vociare lugubre, il silenzio dei due teleri. Non assistiamo all‘esplosione di una gestualità selvaggia, incontrollabile: è invece il dilatarsi dei contenuti, la necessità di mettere in scena, si diceva, una catastrofe colossale, collettiva. Scorriamoli, allora, questi dipinti, guardiamole queste presenze che ci circondano, ci assalgono.
A livello iconografico non vi è, né vuole esservi, scansione temporale, cronologica: ogni scena è istante a sé, sfaccettatura diversa e simultanea di una medesima situazione fissata come in un lampo al magnesio. Eppure il fattore temporale ben si esplicita in un riconoscibile dipanarsi dei fatti, un succedersi di eventi, di stati emotivi, in un organizzarsi degli elementi in sequenza quasi cinematografica, secondo un movimento orizzontale già contenuto in embrione in dipinti quali il grande sonno (1991).
Ecco il telero che pare racchiudere l‘attimo stesso della tragedia (I): nell‘improvvisa coscienza della fine imminente, i corpi si affollano, premono per trovare salvezza. Urla, rigurgiti, grovigli di membra: il caos in una composizione di fatto attentamente calibrata, racchiusa fra la chiara figura rovesciata e in caduta sulla sinistra (nata dalla costola di una Pecora, o diretta citazione da Das Bett [1990]), e quella scura, dai tratti quasi primitivi, che, a destra, simmetricamente – e simbolicamente – le corrisponde. Fra queste due polarità quasi bidimensionali ma insieme di importanza tettonica, idealmente unite da una terza figura centrale semisdraiata in primissimo piano, le teste si accavallano in masse scolpite in una luce materica, sulla base di uno schema già più volte indagato da Ritter (si vedano le diverse versioni di Boccia [1991]): apparizioni in totale isolamento, senza volto o fisionomia precisa, senza sguardi che si incrocino, mute a qualunque comunicazione, che rabbriviscono oppresse da granitiche solitudini. L‘impasto materico si avvale di pennellate brevi, trattenute, cariche di una tensione latente, mai debordante e proprio per questo poderosa. E poderosi sono la studiata cromia livida, più lacustre che marina, tutta incentrata su toni complementari – rossi/verdi, gialli/violetti – e l‘intrecciarsi simultaneo di superficie e costruzione volumetrica, fonte di ulteriore, inatteso dinamismo. Nel dipinto successivo (II) si è instaurata una calma innaturale. Un silenzio. È una zattera carica di corpi sporchi di sangue e come macchiati di muffe, di licheni, abbandonati gli uni sugli altri, incoscienti, pesanti di un sonno torpido, immobili in balìa delle onde. Una distesa di corpi come un paesaggio, una geografia di montagne e di valli, di morbidi dossi e di dirupi incalzanti, di pietra viva, divisa a metà da una fenditura da impiantito, o da crepaccio. Natura perennemente in fieri, eterno plasmarsi della sostanza vitale.
Ed ecco che la situazione muta di nuovo (III). Al centro, ora, si riconosce la zattera; una luce rancida e diaccia illumina i sopravvissuti. E questi appaiono uno dopo l‘altro, soli, singoli individui senza identità, gioco di carni che riassume una ricerca pittorica decennale.
Ritter accosta figure di stampo quasi accademico, senz‘altro ancora legate a un tipo di espressività da Neue Sachlichkeit (III.10), reminiscenze di quell‘altro momento culminante che è il citato Lavaggio dei piedi, a figure di un altro versante (si vedano, ad esempio, III.2, III.5, III.7), impregnate di quel fremito psichico-erotico alla Degas, alla Bonnard, già attentamente esplorato nella serie dedicata alla Badewanne (1990-1991). Da una plasticità solida, marcata, chiaroscurale (I.10), si trasfonde, attraverso tutta una serie di passaggi intermedi, in cui massa e superficie si combinano e si contrastano creando dinamici equilibri, nella totale bidimensionalità di superfici vibranti pressoché monocrome, che l‘artista tratta sapientemente forte della radicata esperienza grafica e che gettano un ponte verso gli esiti più attuali del suo fare pittura. Le forme lottano per non essere sopraffatte dall‘informe: naufraghe esse stesse, tentano di liberarsi della materia inerte che le sommerge. Appaiono e scompaiono, affiorano e affondano, si raggrumano e si sciolgono. I quindici corpi hanno contorni chiusi, netti, che li disgiungono dall‘amorfo ambiente circostante, eppure sono costituiti della medesima sostanza rugosa e fremente. Talvolta, in uno slancio improvviso, si aprono verso l‘esterno in un tentativo di osmosi, di scambio. Ma la loro è una solitudine che non trova scampo se non, forse, in quel verdognolo incontrarsi di mani nel mezzo del pannello centrale, in quel volersi dare reciprocamente vita quasi da tragica Cappella Sistina. Anche in questa terza serie i volumi si stemperano in superficie e ridiventano volumi in un andirivieni infinito, l‘impasto cromatico solcato da increspature incessanti. Anche qui, il buio lotta con una luce ora livida, ora abbacinante, da obitorio, in un conflitto continuo fra notte e giorno, fra gelo e calore. Contrasti simultanei che generano un moto inarrestabile, il moto, appunto, dell‘universo barocco, dei soffitti sfondati da vorticose ascensioni.
Infine, lo sguardo si fa ancora più vicino in una sorta di zoom che riprende i quindici volti, anonimi eppure carichi di tensione psicologica (IV). Volti in cui tutto converge: gli innumerevoli autoritratti, i suicidi della Valchiavenna, i giocatori di bocce; le figure-ombra, le rocce antropomorfe, i dormienti. Si addensano in un discorso che cristallizza non soltanto la dicotomia di luce e ombra, non tanto il collidere di volume e superficie, quanto l‘antitesi - da sempre centrale in Ritter - fra forma e informale. Un‘antitesi che qui, in questa sequenza finale, sembra toccare uno zenit: i quindici volti, tradotti da diverse angolazioni, si scompongono e si ricompongono senza sosta, sempre sull‘orlo della disintegrazione, dell‘annegamento nel magma, eppure ben presenti nella raffinatezza dell‘impasto materico. Completi e autonomi singolarmente, si rivelano nel contempo accostabili in diverse combinazioni a costituire un‘unica grande tela; si dispiega allora un sapiente gioco di cromìe, di luce e di buio, di profili e di frontalità.
Il difficile – e privilegiato – confronto di Bruno Ritter con la figura trova soluzione in questo „tema barocco“ segnato da una pittura lungamente sedimentata, ormai matura. L‘artista approda a una sua forma di espressività per così dire (e sia concesso il paradosso) introspettiva, non urlata eppure di elaborata pregnanza, in grado di dilatare addirittura su scala spaziale il nesso dialettico fra superficie e volume, fra forma e informe.
Tutte le suggestioni, le problematiche, i nodi che lo hanno avvinto nell‘ultimo decennio – in particolare la situazione di isolamento, di Enge, il sofferto rapporto fra nord e sud, il peregrinare fra espressione e impressione - trovano in questo ciclo di respiro universale una loro affermazione e un loro equilibrio, sfociano in una sintesi già sicura, felice. Una sintesi che è punto non di arrivo ma di svolta, coscienza di una via ancora da percorrere, ma trovata.
„Ein barockes Thema“. So hat Bruno Ritter seinen monumentalen von Le radeau de la frégate La Méduse des Théodore Géricault inspirierten Malzyklus genannt; ein Zyklus, der zur Installation wird und der sich in seinen malerischen Werdegang als ein Ereignis mit weitgreifenden komplexen Implikationen, als wahre Summa, einfügt. Bruno Ritter setzt sich – und uns – mit der Katastrophe auseinander: Das verzweifelte sich Winden und Umfangen der schon fahlen Körper, die in verspäteten Angstzuckungen verkrampften Glieder, die von den Schreien verzerrten und durch das bissige Licht höllisch verformten Gesichter, wie in einem grossen Gemetzel, all diese Elemente geben einem Thema Ausdruck, das für ihn seit langem künstlerisches und existenzielles Leitmotiv ist. Von Der grosse Schatten (1990) über die Berg-Frauen, von den traurigen Schafen, die sich dem Abgrund ausliefern, zu den Schlafenden in Der grosse Schlaf (1991): Stets ist die Katastrophe drohend da. Wie könnte es auch anders sein für denjenigen, der die herben Stein- und Schlammgebilde des Chiavennatals als Lebensraum gewählt hat, jene Felsen, die 1618 durch ihren Absturz die Häuser von Piuro ins Erdinnere zurückgedrückt haben; jene Berge, die bei jedem Schnee- oder Regenfall, bei jedem Sommergewitter angstvoll und mit einem stillen Gebet hochblicken lassen. Ritter kommt als Mensch und als Künstler aus dieser Enge: der physischen Enge eines versenkten Tals, das den eigenen Horizont aufhebt, aber auch der geografischen Enge einer sich immer mehr verschliessenden Schweiz und der psychischen Enge einer selbstgewollten, aber nicht minder schmerzlichen Isolation. Es gibt also keinerlei Bruch zwischen dem Motiv des Flosses als minimalem Raum, der keine Ausdehnung, keinen Atem, kein Wachstum und im weiteren Sinne keine Entwicklung erlaubt, und den Ritter so wichtigen Themen des drohenden Berges oder der Badewanne, zwischen deren eiskalten emaillierten Wänden sich die Körper in entsetzlichen Stellungen winden. Berg und Floss sind die beiden Gesichter einer einzigen Bedrohung, einer einzigen Tragödie. Diese Ritter schon so eigene Poetik erfährt in dem von der Méduse inspirierten Zyklus eine Erweiterung bis zu dem Punkt, an dem die Welt selbst zur Enge wird: Die Welt wird zum global village, durch die Massenmedien verarmt und vereinheitlicht, durchzogen von aseptischen informatisierten Kommunikationswegen, zu einer mikrokosmischen Welt, in der die schlimmsten Konflikte ausbrechen.
Ritter drückt mit „Ein barockes Thema“ die Tragödie einer Menschheit aus, deren Zustand die Einsamkeit vor dem Unbekannten, dem Geheimnis, der Grenze des eigenen Verstandes und des eigenen Seins ist. Verständlicherweise, weil das Floss von Géricault wahrscheinlich den Höhepunkt eines langen Weges darstellt, eines Weges, der seinen Anfang im schwarzen Barock hat, der aus der klaren Renaissance wie ein dunkler Auswuchs hervortritt und deren Grenzen und Perspektiven mit neuen und verwirrenden Weltanschauungen durchbricht. Barock wird zur Umwälzung, zum Verlust an Stabilität, an Sicherheiten. Der Barock verändert sich von bestimmtem historischem Moment in einen mentalen und existentiellen Zustand mit äusserst modernem und verwirrend aktuellem Charakter für dieses Fin-de-siecle – und Ende eines Jahrtausends –, in dem eine scheinbar siegreiche Menschheit sich von Urängsten, von atavistischem Aberglaube („tausend und nicht mehr tausend“) befallen sieht und im Dunkeln zwischen den Ruinen der eigenen Vernunft, der eigenen Utopien umherirrt. Es ist die langwährende innere Umwälzung, wie sie schon Caravaggio und Ribera mit ihren Lichtschwertern beleuchtet hatten, mit ihrem Bemühen, das Schwarze zu zerreissen, das nach und nach immer tragender wird, in der Ästhetik wie in der Seele, Hintergrundgeräusch, das in Frans Hals, in Courbet, in Manet und in Goya erklingen wird, jenem Goya der Schwarzen Malerei der Quinta del Sordo, und weiter in Géricaults Floss wie auch in seinen armen monomanischen Irren, die zum „Schlaf des Verstandes“, zum „grossen Schlaf“ verurteilt sind. Somit sind die Helden Ritters nicht mehr jene der Vernunft und des Fortschritts; es sind im Gegenteil Schiffbrüchige einer zur Ruine heruntergekommenen Epoche, denen vielleicht die Hoffnung auf Katharsis geboten wird, die Möglichkeit, neue Ufer kennenzulernen, einen neuen geistigen Weg zu gehen. Es erstaunt keineswegs, dass der Künstler den Begriff des Altarbildes einführt: Die religiöse Betonung erhält eine mystische Färbung in dem steten Aufeinandertreffen mit einem Leben, das sich in alle Ewigkeit sich selbst opfert, in dem ewigen Lauf von Zerstörung und Schöpfung, in dem sich alles wandelt und doch identisch bleibt. Dieses Gefühl des Kampfes und der ewigen Verwandlung zeigt sich eindrücklich in einer überwältigenden malerischen Spannung, gerade weil in diesen Bildern auch der ganze malerische Werdegang des Künstlers von den achtziger Jahren bis heute zusammengefasst ist: Die dialektische Beziehung zwischen Ausdruck und Eindruck, Formalem und Informalem, Tiefe und Fläche, die Ausdehnung und Vervielfältigung der Formate, die lange Ablagerung der Materie, all dies erlebt eine Bestätigung in der schon sicheren und geglückten Synthese eines universale Ansprüche stellenden Zyklus‘.
Perché questi artisti stanno insieme? Perché insieme espongono? Se si osserva in giro, si vede che dopo tante polemiche, speranze, insulti e ignoranze, I‘arte contemporanea tende nuovamente a perdere quell‘impulso vitale, realistico, che veniva agli artisti da un accordo con le cose, mentre si sviluppa una più acuta antitesi tra la nostra civiltà postindustriale e quel che resta della nostra campagna. Per taluni, il realismo e naufragato con la classe operaia, che sarebbe morta e sepolta; d‘altra parte la postavanguardia, a cui sarebbero affidate le sorti intellettuali dell‘arte, ha ceduto vigore, stemperandosi in un eclettico lirismo o in giochi che ormai annoiano privando noi pubblico di quel tanto di divertente che ci presentavano ogni tanto. Non sono questi quattro artisti, per quanto di valore, che rifonderanno l‘arte moderna. Ma è certo che né Floriano Fabbri né Bruno Ritter, un romagnolo e uno svizzero, né la Simone né Simonini, milanese ed emiliano vogliono affondare nella nebbia, nell‘inconsistenza del manierismo contemporaneo. Essi operano perché l‘arte è per loro una necessità ideale, innata e accettata con gioia e sofferenza, perché dipingere e formare, modellare è cosa grata ma richiede anche tanti sacrifici, prima di tutto quello dell‘incertezza sulla destinazione dell‘opera. Chi oggi ha bisogno di arte? I quattro hanno fiducia nell‘ottimismo del mondo, in cui si risolve la dialettica tra Città e Campagna nella misura in cui, accanto al negativo dell‘esistenza, si manife sta una gioia di vivere, una bellezza del sentimento che può affermarsi anche negli oscuri presentimenti di Simonini, come nelle denunce delle aspre realta del corpo di Ritter o di Fabbri, mentre i colori freschi, talvolta esaltati, della Simone esprimono una gran voglia di vivere, di esistere. In Città? In Campagna? La nostra civiltà riacquisterà l‘equilibrio quando i due termini accostati significheranno di nuovo completezza e felicità dell‘esistere.
Ich habe Bruno Ritter einmal im März besucht. Von einer merkwürdigen Agentur hatte ich ein noch seltsameres Engagement für eine Lesungsreihe unter dem stolzen Titel „Dichter lesen im Hotel“ in einer Luxusherberge Pontresinas vermittelt bekommen. Tagsüber gingen meine Frau und ich unter dem stahlblauen Engadiner Himmel fröhlich wandern, abends assen wir wie die Maharadschas, dann hatte ich, um punkt 21 Uhr, als „poetischer Tellerwäscher“ im Bridgezimmer meinen Aufenthalt abzuarbeiten, wo ich den müden & sensiblen, aber viel-zu-reichen Frauen der abwesend bleibenden, in der Bar an ihren Zigarren saugenden, vermutlich grossindustriellen Ehegatten die wunderbaren Schönheiten meiner Poesie in die Ohren hauchen musste. Wir riefen schon am ersten Abend Bruno an, nicht gerade verzweifelt, aber wir brauchten dringend seinen Humor, seine Kunst und seine bei allem Künstlertum erholsame Menschlichkeit.
Am nächsten Morgen stand Brunos inspiriert verbeultes und staubiges Autovehikel an der Prunkauffahrt des schlossartigen Hotels, von den bodenlos verblüfften Hoteldienern und entgeisterten Hotelgästen misstrauisch beäugt, als sei gerade ein Ufo im Engadin gelandet. Dann fuhren wir zu dritt schleunigst los und hinaus und hinab auf Brunos Alltagsroute.
Bruno Ritter hat wohl einen der spannungsreichsten Wege zur Arbeit, die man sich denken kann. Er lebt in Maloja, im Kanton Graubünden, nicht weit von Nietzsches Lieblingsspaziergängen um den Silser See, umgeben von imposanten Alpengipfeln. Eine grandiose Kulisse für einen Maler. Tatsächlich warf „der Berg“ jahrelang immerzu seinen Schatten und sein wechselndes Licht auf Brunos Leinwände. Aber lebt er wirklich dort im Alpenreich? Jeden Morgen steigt er ins Auto und nimmt erst einmal die siebzehn engen Kurven ins Bergell hinab, nach Casaccia, und weiter das Tal hinab von Drift zu Drift, eine Fahrt ebensosehr durch die Gesteinsschichten wie durch die Geschichte der Malerei. Bruno startet in Maloja, dem späten Wohnort des Alpenmalers Segantini, und passiert auf seinem Weg das Dorf Stampa, aus der die ganze weltberühmte Künstlerfamilie der Giacometti stammt, deren wichtigster Spross Alberto die Bildhauerei und die Malerei des 20. Jahrhunderts revolutioniert hat. Und weiter hinab: Unter Schuttkegeln, den Resten der Bergstürze, liegen verschüttete Dörfer, verschüttetes Leben.
Das Bergell ist ein karges, knorriges, von atemberaubenden Klüften geprägtes Tal, wo man einen schwerverständlichen Dialekt spricht, das Bargaiot: eine verwegene Mischung aus Rätoromanisch und Lombardisch. Eine Art sprachliches Urgestein. Man denkt, die Menschen dort haben einen Berg im Mund. Wenn Bruno sein Atelier im nur 32 Kilometer von Maloja entfernten norditalienischen Chiavenna erreicht, hat er viele Grenzen hinter sich zurückgelassen und rund 1600 Meter Höhenunterschied, die er abends wieder in der Gegenrichtung absolviert, himmelwärts, als sei nichts dabei. Wir besuchten ihn, wie gesagt, im März, in Maloja auf 1900 Meter lag noch menschhoch Schnee, als wolle der Winter nie wieder vergehen. Dann landeten wir unversehens in Chiavenna auf 300 Meter, in einem hübschen italienischen Städtchen mit Palmen, Zypressen und Oleandersträuchern. Dort stolzte bereits ein unübersehbar prächtiger südlicher Frühling. Ich rieb mir die Augen, konnte den Wechsel kaum glauben, der Kontrast war so unerhört, dass man leicht den Verstand hätte verlieren können.
Wie hält er das aus, diese täglichen Kontraste zwischen Nord und Süd, diese abrupten Klüfte, dieses tägliche Wechselbad von schneereichem Schweizer Bergimperium und dem Städtchen mit der schamlos italienischen Seele? Vielleicht ist das Aushalten der Kontraste sein Lebensprogramm, oder sein Arbeitsprojekt als Maler. „Il pendolare“ – „Der Pendler“ hiess eine ganze Bilderserie oder: eine Lebens- und Schaffensphase. Das Pendlertum ist seine Existenzweise. Auch in der heutigen Ausstellung gibt es eine Erinnerung daran, das grossartige „Pendler-Triptychon“ mit Berg, Strohstuhl und Pinsel-Gewirr.
Bruno Ritter ist ein hellwacher Fährmann zwischen Nord und Süd, zwischen Abstraktion und detailtreuer Figürlichkeit. Er ist ein strenger Alpenkönig und italienisch inspirierter Ambasciatore der Sprache der Malerei.
Bruno ist für mich die verkörperte Mal-Leidenschaft, so etwas wie ein Vollblutmaler, ein immerzu Suchender, der weder die existentiellen noch die farblichen Klüfte und Kontraste scheut, sondern in sie eintaucht, sie erforscht, mit unbändiger vitaler Lust in ihnen wühlt. Er ist ein Erforscher der malgeologischen Alpendrifte, der Lebensklüfte, der Bergstürze einer Existenz. Er ist ein Rastloser, immer unterwegs zu neuen Themen, Techniken, Temperamenten. Das ist vielleicht pathetisch gesagt, aber darüber soll nicht Brunos ernsthafte Kunst des Humors und der Selbstironie vergessen gehen.
Auch in der neuen Ausstellung hält er wieder enorme Kontraste und Überraschungen parat. Vor wenigen Jahren stand ich vor grossen abstrakten Gemälden voller kraftvoller Gesten und Flugbewegungen von immensem Schwung. Und jetzt plötzlich: gebändigte Stille. Oder scheinbare Stille. Mit dem Begriff „Stilleben“ jedenfalls kommt man diesem Maler nicht bei, zu sehr brodelt es unter der Oberfläche. Es sind Innenansichten eines Ateliers und eines Hand-Werks, das bunte Chaos im Detail seines Arbeitsortes im Castello di Chiavenna. Diese scheinbaren Stilleben sind nicht Ausdruck der milden Beruhigung und Abgeklärtheit. Misstrauen Sie der Stille! Hier herrscht ein freches Durcheinander mit wunderbaren farblichen Akzenten und tiefen Einblicken in die zerklüfteten Bergtäler des Ateliers. Beachten Sie die Bildausschnitte, die sich keineswegs brav in den Rahmen fügen. Dieses Chaos ist gewagt komponiert und lebt von inneren Spannungen, die dieser Künstler kultiviert. Die Bilder bezeugen eine farbenreiche und heitere, doch beharrliche Konzentration auf das Naheliegendste, auf die Instrumente der täglichen Malpassion. Schlichtes Malwerkzeug, Farbdosen, Spachtel und Tuben werden zu Gebirgsmassiven, zu Augen-Zeug und Augenzeugen des gestalterischen Ringens. Kontemplativ, aber kühn ist der Blick, gebändigt, aber immerzu impulsiv der Pinsel. Es ist unruhiges „Stilleben“, das hier ausgekostet wird. Meditation, konzentrierte Einkehr und ungestümes Temperament sind nicht Dinge, die sich gegenseitig ausschliessen müssen. In seinen Gedanken zur heutigen Ausstellung hält Bruno fest:
„Mein Atelier ist mein Ort der Einkehr, in geistigem Sinn, und der Ort, wo mein ganzes Leben herumliegt, den ich täglich begehe. Ich wandere, befreie meine Tische und verstelle dafür andere Orte, die ich dann umgehen muss. Die Fülle im Atelier ist immer wieder Anlass, das Raumbild zum Motiv zu nehmen, es abzutasten, es in ein Bild zu fassen. Gleichzeitig erschütternd, mich darin zu erkennen, wahr zu nehmen, dass ich im ganzen Chaos durchaus eine Ordnung zu erkennen vermag.“
Die gegenwärtige Reise durch das eigene Atelier, das ihm mit einem neuen Blick plötzlich so fremd wie vertraut vorkommen dürfte, ist also wieder festgehalten in einem malerischen Forschungsbericht. Das ist der innere Kongo des eigenen Ateliers. Aber kein finsterer Dschungel, sondern ein verblüffend lichtvoller, von heiteren Farben durchfluteter. Und selbstverständlich sind das nicht einfach gleich-gültige Gegenstände, sondern es ist liebgewordenes Gerät des gelebten Lebens. Lassen wir noch einmal Bruno Ritter selber sprechen:
„Einzelne Gegenstände sind mir lieb geworden. Der Stuhl, dieses mittlerweile unförmige Strohgeflecht, das sich in Auflösung befindet, mir seit Jahren als „Regie“-Stuhl dient. Auch die Pinselablage, meine Yucca und meine Holzskulptur sind immer wieder anzutreffen neben all den Tischbildern, die sich täglich in Veränderung befinden. Alles gehört zu meinem Alltag im Atelier. (…) Es sind Portraits! Es sind Gegenstände, denen ich ein Eigenleben zuspreche, die einst, oder noch eine Aufgabe erfüllen mussten oder müssen, die jederzeit wieder in Gebrauch genommen werden können.“
Und plötzlich erkennt man, dass zwischen den Bergansichten des Bergell und dieser konzentrierten Atelierkontemplation eben doch ein Band besteht, dass die Spannung zwischen den Gegenständen genauso intensiv ist wie bei den Bergschründen, gestürzten Schafen und zerklüfteten Körpern und Gesichtern, die Ritter früher gemalt hat. Und man ahnt schon, dass der gebannte Blick ins eigene Atelier eine wichtige Etappe sein wird, ein konzentriertes Innehalten vor einem neuen Sprung in das Unbekannte.
Aber Bruno schwelgt in der neuen Schaffensphase keineswegs ausschliesslich in bunten Versammlungen unbelebter Gegenstände. Natürlich sind wieder Menschen da, konzentrierte und spannungsreiche Figuren und Situationen. Es gibt in der neuen Ausstellung eine sitzende, dunkle Figur auf einem Stuhl, vom Betrachter abgewandt, ihm den Rücken zuwendend oder einfach die rechte Schulter. Das faszinierende Bild heisst schlicht „Schulter“. Kein Gesicht ist sichtbar, nur diese dunkle ruhende Figur in Rückenansicht. Vielleicht ist es die Malerei selber, die Malerei als „das unbekannte Wesen“, das sich in diesem Moment nicht enthüllen will, sondern erst einmal versunken nachdenkt, wohin die Reise gehen soll.
Die Spannung eines Gesprächs ist unmittelbar spürbar in dem Bild „Dialog“, wo die Gesichtszüge des Gesprächspartners klar erkennbar, jene des tiefer sitzenden Malers aber abgetaucht sind in das Nachdenken und die Intensität des Dialogs. Er braucht nicht einmal den realistischen Gesichtsausdruck, um diese Intensität spürbar zu machen: Dieses braun durchfurchte Gedankengelände genügt ihm, um die Idee eines Gesprächs darzustellen. Auch die kauernde Figur in „Sara spielt“ braucht keine realistischen Gesichtszüge, um das Versunkensein ins Spiel packend glaubhaft zu machen. In diesen beiden bewegten, abstrakten Gesichtslandschaften entsteht eine schöne Verbindung zwischen dem konzentriert schaffenden Maler und der konzentriert spielenden Tochter Sara.
Dabei scheut sich Bruno Ritter keineswegs, den Menschen ins Gesicht zu sehen und – sich selber ins Gesicht zu sehen. Die Reihe von Selbstporträts ist etwas vom Verblüffendsten in seinem Werk. Er hat auch schon mit der Tradition der Selbstporträt-Serie gespielt und gern Rembrandt zitiert. Im Zitieren der Tradition - etwa auch in der Auseinandersetzung mit Albrecht Dürers für Bruno RITTER besonders wichtigem Kupferstich „Ritter, Tod und Teufel“ - liegt nicht nur ein Ausleben des Spieltriebs, sondern grosser Ernst. Die „Dramaturgie der Zeit und des Erscheinens“ bestimmt Bruno Ritters Werk. Der eigenen Zeit, der flüchtigen Lebenszeit, und der in der Malereigeschichte festgehaltenen Immer-Zeit. Was auffällt in Brunos Selbstporträts, ist die Tatsache, dass er sich so ungescheut ungeschönt zeigt. Kein munteres Bürschchen, das es mit den Model-Beaux aus Werbung und Mode aufnehmen will, sondern eher ein ur-uralter Mann mit einem Gesicht voller Furchen, einem tief gelebten Gesicht. Es sind Porträts des Künstlers als geprüfter und sich selber prüfender Mann. Viele Gedanken haben sich eingegraben in dieses Gesicht, viele Blicke sind eingesunken in diesen Augen spürbar, die ganze Malereigeschichte ist Haut, Knochen und Fleisch geworden. Und manchmal ist im Gesicht auch jener Funke des Wahnsinns wahrnehmbar, der zu jeder wirklichen Kunst gehört.
Wie schrieb Novalis, einer meiner Lieblingsautoren (mein letzter Gedichtband heisst „NOVALIS IM WEINBERG“), in einem seiner Fragmente: „Alle Bezauberung ist ein künstlich erregter Wahnsinn.“ Und an anderer Stelle: „Wahnsinn und Bezauberung haben viel Ähnlichkeit. Ein Zauberer ist ein Künstler des Wahnsinns.“
Jeder Maler oder Dichter ist ein Mischwesen aus Enthüllungs- und Verhüllungskünstler. Also auch ein Zauberer. Ein guter Zauberer aber wird sich hüten, alle seine Tricks und Künste auf einmal zu enthüllen. Es gibt Maler, die haben mit fünfundzwanzig Jahren ihren Stil und ihr Thema gefunden und beackern darauf ihr einziges Feld bis ans Lebensende. Sie zitieren sich fast nur noch selber und erschaffen sich nicht mehr neu, sondern reproduzieren müde nur das einmal Gefundene. Bruno Ritter ist das pure Gegenteil, nie weiss man, wohin er als nächstes aufbrechen wird, wohin der Sprung in das ungestüme Element der Vollblutmalerei ihn lenken wird. Womit er sich und uns als nächstes überraschen wird.
Lassen sich sich von Bruno Ritter in der heute eröffneten neuen Ausstellung einfach überraschen und überrumpeln und bezaubern.
Im Katalog zur Ausstellung Bruno Ritter (* 1951)2 1992 im Museum zu Allerheiligen steht im kurzen Lebenslauf des Künstlers: «1982, Auswanderung nach Italien». 1980 fand in der Galerie Stadthausgasse in Schaffhausen eine Einzelausstellung statt, 1981 eine in der «Ciäsa Granda» in Stampa. Dieser Wechsel zwischen Ausstellungen in der Region, auch in Zürich, und in der italienischen Schweiz sowie in der Lombardei, gehören in den folgenden Jahren zur Biografie von Bruno Ritter. In ihr spiegelt sich seine Unruhe, verbunden mit der Frage: Wo gehören der Künstler und seine Kunst hin?
1982 wählte Ritter Chiavenna als Arbeitsort. Chiavenna ist keine Stadt mit einer interessanten Kunstszene, sondern der Hauptort am Ausgang des Val Chiavenna, der südlichen Verlängerung des Bergell, ein Ort zwischen den Bergen und gleichzeitig unmittelbares Tor zum Süden. Der Süden bedeutet für Bruno Ritter nicht so sehr die kulturelle Tradition, die in der Antike ankert, sondern ein Lebensgefühl, das mit dem Leben auf der Strasse und auf den Plätzen und mit einem Hang zum Anarchischen verbunden ist.
Eines der Hauptthemen in Ritters Schaffen ist der Berg, ein Motiv, das der Künstler schon im Norden entwickelt hat. Mit ihm stellt er sich einem Inbegriff des Schweizerischen, das seit Ferdinand Hodler (1853-1918) die moderne Schweizer Kunst prägt und für jeden Landschaftsmaler im 20. Jahrhundert eine Herausforderung bedeutete. Bei Ritter steht der Berg immer in Beziehung zum Menschen, als Bedrohung, als Kraft, als unausweichliches Gegenüber. Der Künstler spürt auch der mythologischen Bedeutung dieses Urmotivs nach. Darin steht er der italienischen Transavantguardia mit ihren Vertretern Sandro Chia, Enzo Cucchi und Francesco Clemente, die in den 80er-Jahren zu internationaler Bedeutung gekommen sind, nahe. Der Schaffhauser Künstler fand italienische Kritiker, die diese Tendenz vertraten und die über seine Malerei schrieben. 1986 war er an verschiedenen regionalen Biennalen präsent, 1988 hatte er eine Einzelausstellung in einer Galerie in Mailand. Trotzdem blieb ein eigentlicher „Durchbruch“in der aktuellen Kunstszene aus. Ritter verkehrt nur selten in den kunstbestimmenden Kreisen in den italienischen Metropolen. Er lebt wie vorher am nördlichen Rande der Schweiz - nun an der nördlichen Grenze der Lombardei. Das hat - gerade ferne der Heimat, wo nicht Freunde und Bekannte zum Sammlerkreis gehören - seinen Preis, den er aber, um frei zu arbeiten, mit seiner Familie auf sich nimmt.
«Faire de l‘art vivant» - das bedeutet für Ritter, eine Sprache zu finden für den persönlichen existenziellen Kampf zwischen Verlorenheit und Aufgehoben sein. In seinen neusten Werken ist die Malerei absolut geworden, «eine Malerei, die aus dem reinen Akt des Malens gewonnen wurde».‘ Mit der «art vivant» durchzudringen bedeutet aber auch, vom Kunstmarkt wahrgenommen zu werden, gesellschaftliche Beziehungen zu pflegen: Kontakte, die vielen Künstlerinnen und Künstlern nicht liegen.
Fu così che ci ammalammo. Eravamo i padri dei padri. E già i figli, nel numero previsto. La montagna era una cosa viva, mobile. Si stagliava in cielo un sole di ghiaccio. Giungemmo qui sfiniti dalla fatica. Avevamo gli occhi dilatati in un dolore che non capivamo. Sentivamo paura. Parlavano per noi i nostri versi. Ci batte vano sulla schiena per indicare i pericoli. Non avevamo cognizione del mondo. Il mondo era la nostra fame. Eravamo chini sulla nostra stanchezza. L‘orizzonte dei nostri occhi era limitato dai nostri appetiti. Sensibili al freddo. Nudi e coperti da un raro pelo. Castigati da una luna gigante che dipingeva di bianco il nostro corpo. Intimiditi dalle ombre lunghe degli alberi. Spaventati dai denti della montagna che si mangiava il cielo. Affannati per la corsa, la fatica e chissa cos‘altro. Non sapevamo che questo era il rifugio. La memoria del nostro viaggio s‘era persa.
Fu il pasto della prima notte. Nessuno di noi dormì. Al sorgere del sole le nostre ombre ricurve piagavano la terra su cui c‘eravamo fermati. Alzammo gli occhi verso l‘ombra malevola. La montagna stringeva. Sembrava che i suoi denti volessero chiudersi. Ci prese un opprimente bisogno di mugolare, la bocca schiacciata sulla terra. Il freddo ci percuoteva. Dentro di noi sen tivamo una forza malvagia. Sotto di noi, nella terra, nel profondo, nel buio, nel I‘umido sconosciuto, una sorta di eco si ripeteva incapace di uscire. Non era freddo quello che ci faceva tremare. Alcuni di noi morirono. Nella morte rivolsero la faccia al cielo. Il cielo era limpido, serenamente conscio di noi. Le facce dei morti sembravano ancora ammalate. Ancora sofferenti dello sconosciuto che le aveva condotte a morire. Era fame. Lo gridò uno di noi. Il male, tutto il male di cui pativamo era fame. Chi fu il primo non è più nella nostra memoria. Forse era già divenuto figlio del padre o figlio del figlio. Corse incontro alla montagna senza il coraggio di guardarla, gli occhi rivolti all‘ombra ricurva. Correndo guai come un cane, come non sopportando la luce. Si schiantò contro la montagna. Il sangue della ferita si rapprese immediatamente, ghiacciato. Fu l‘unico sangue che, da allora, vedemmo. Afferrò la montagna, gridando. Gli altri di noi guardavano uno vicino all‘altro. Affondò i denti nella roccia della montagna. Ci fu rumore di ossa spezzate. Strappò e nella bocca aveva un pezzo della montagna. Gli occhi rilucevano di una soddisfazione animale. I suoi denti masticarono, più forti della pietra. Per lungo tempo masticò quella carne, sino a che la roccia fu sangue.
C‘è un tempo per pensare, o ripensare, impressi- oni e concetti e un tempo per parlare o dipingere o scrivere. Queste due dimensioni si completano come in un antico simbolo. In esso e racchiuso un limite invalicabile, oltre il quale conosceremmo tutti i perché dell‘opera d‘arte. Tra le mille tracce che un pittore lascia di sé, la più evidente da seguire per avvicinarsi all‘opera è forse questa. Permette di capire i ripensamenti dell‘inizio e l‘elaborazione che segue. Bruno Ritter può essere letto così. Nel primo tempo un complice scomodo: il pensiero che non può fare a meno di rivolgersi a Ensor o Munch. Le tele davanti alle quali si fa più forte la visione di queste radici propongono ammassi umani, talvolta un uomo solo ma come riconver- tito in poltiglia. Entro i confini delle tele uomini e donne, ancora, urlano; carichi di colori scempiati i loro vestiti, le stanze che abitano, le membra che espongono. Esseri in dissoluzione. Come dire che nessuno più ascolta l‘urlo, nessuno più si meraviglia di un‘agonia. Poi il solco si fa meno agevole da seguire, più tenue la traccia, più ardua la lettura. Sfuma, quasi, tutta l‘energia di prima. Ritter, stanco forse di rappresen- tare, lascia intendere; e il momento della fusione di idee o colori (ma idee e colori per un pittore sono sinonimi). Domina l‘inquieta dimensione dei qua- dri il silenzio. Dominano le figure rilasciate, ormai senza sangue. Il pennello è, in questa fase, più lontano dalle sue radici, s‘avvicina ai nostri tempi tormentati e disillu- si. Ha scritto T. Mann che quando l‘anima e tormen- tata dal dubbio non è bene stare fermi. Ritter ha camminato sulle sue tele, gli ultimi passi leggeri.
Anziché dire però Bruno Ritter dice „prò“: il suo vocabulario italo-svizzero ha questa „e“ facoltativa. È un ricordo tratto dal primo incontro: quando, contestandogli il freddo che faceva a Canete, lui rispose: „Prò si sta in pace“. Amen, dissi: perchè pace, è vero, c‘era, ma cimiteriale. E da cimitero di montagna, dove i morti a me hanno sempre dato l‘idea di soffrire di più degli altri a stare sotto- terra.
Canete non è neanche una cacca di mosca su una cartina geografica: è un colpo di karatè tirato nella montagna di un Dio giocherellone. È una sfida posta in questi termini: se è vero che l‘uomo che ho creato si adatta a tutto qualcuno andrà ad abitare anche lì. Detto, fatto. Bruno Ritter ci è arrivato dalla Svizzera con una faccia da Malcolm Mac Dowell e vezzi da cosmopolita, ripartendosene, dopo parecchi anni, con un sorriso da giorno di cresima e muscoli da spaccalegna. Quanta legna avra spaccato nel corso di quegli anni non so dire: tonnellate comunque. Alternative, contro il freddo, non ne aveva, se non quella, impraticabile, di adorare il Dio Sole.
Chi gliel‘ha fatto fare? Cherchez la femme, ma non solo. L‘amore, direi, anzi l‘amour, perché detto alla francese ho l‘impressione che quella erre finale si prolunghi all‘infinito. L‘amour, allora, per Maya, la donna che gli ha offerto il riparo di Canete, e per sè, arte e pennelli compresi. È un lungagnone, il Ritter. Adesso che ha lo studio, e che studio, a Chiavenna mi sembra rientrato nella categoria dei normali. Ma se lo ripenso a Canete lo rivedo sempre un po‘ ingob- bito, preoccupato di non picchiare la testa in un sof- fitto o contro qualche lampadario. Ho riflettuto su questo fatto, considerando anche che poteva essere una distorsione della memoria. Invece no: perché ho capito che andava pian piano assumendo le carat- teristiche dei suoi soggetti. Di quelli del periodo che chiamerei di Canete: uomini cioè che vivono tutto il giorno con la montagna addosso.
La montagna li è dappertutto: di sopra, di sotto, di lato. Addosso. E quando annotta non è perchè tramonta il sole: sono le montagne piuttosto che si chiudono una nell‘altra, e buonanotte al secchio. Io stesso, in una delle tante sere in cui lo siamo andati a trovare, mi sono sentito spinto a correre fuori dalla sua casa per ululare contro quel cielo di roccia. Non l‘ho fatto perchè sarei passato per ubriaco. Invece pativo la presenza dei fantasmi della montagna.
Se Bruno è riuscito a convivere con loro per tanti anni è perchè ha dell‘ironia: un fantasma sopporta tutto, tranne che l‘essere preso in giro e mandato a quel paese. Credo che qualcuno di loro si sia vis- to ritratto nei quadri di Ritter: immagino che gli sia preso un colpo, che abbia affilato le armi per tentare con ogni mezzo di ridurre a mal partito la testa del Bruno: in parte c‘è riuscito, non lo nego, il nostro ha infatti qualche capello bianco, segno inequivoca bile di spaventi, ma niente di più. Appena planato a Chiavenna ha anche ripreso l‘aplomb del cittadino e ha raddrizzato il rachide.
Ora, lassù, inurbato, dipinge policromatiche nature morte. Sembra che respiri dopo tanta tetraggine. Ma certi vizi non si eradicano mai del tutto. Così, nel corso del penultimo incontro, tra un „prò“ e l‘altro, io curiosando tra le sue carte, mi sono imbattuto in un‘altra montagna: un pizzo Lizun, piccolo picco- lo, dieci per dieci. Mi è venuto di fare il diagnosta, I‘infezione riprende. „Bruno – gli ho detto – ti stai per ammalare ancora di montagna“. „Non è vero – ha ribattuto – sono già ammalato. Ne ho fatti cento“. Poi me li ha mostrati, tutti insieme. Cento piccoli Lizun, ognuno diverso dall‘altro. Che cresceranno, per di- ventare montagna. Anzi, berg.
Non me la venga, non ce la venga a contare Bruno Ritter che questo è il pizzo Lizun: o meglio, che sia solo il pizzo Lizun e non piuttosto la montagna che nel suoi lunghi anni di galera ha dipinto e ridipinto, credendo infine di aver esaurito la sua missione. Galera, proprio, non c‘è errore. Poichè solo un galeotto può conoscere le infinite variazioni di ciò che nella finestra della sua cella si succedono nello stretto panorama che tutti i giorni, giorno dopo giorno, vede. È il Ritter galeotto è stato; non in senso stretto, poichè non gli si conoscono crimini da codice penale, ma in senso metaforico, negli anni della solitaria Canete; docce gelide, pallidi soli e ringhiosi profili di montagne, altezzose e acerbe modelle per tanti suoi quadri. Caro Bruno, credevi di non aver più montagne da dipingere? Guarda i cento Lizun di adesso allora, pensa agli altri rocciosi embrioni che fra un pò prenderanno forma di montagna la galera segna; c‘è chi ne esce rivestito di tatuaggi, chi con l‘ossessione di quella vista che sembra sempre uguale.
Ti saluto cordialmente
Bruno Ritter ha sempre saputo destreggiarsi consapevolmente tra astrazione, figurazione e arte non figurativa. Una siffatta distinzione non è mai stata per lui, pittore purosangue, di gran rilevanza. Ciononostante molte delle sue opere della sua ricca “oevre” si possono collocare mediante l’iconografia in specifici gruppi di lavori artistici, cosa che è stata fatta nella ricezione compiuta finora e anche ripetutamente ed esplicitamente dagli autori dei cataloghi del 1992 e del 1996. Con la repentina svolta biografica del 1982, quando Bruno Ritter lascia deliberatamente la città di Zurigo per trasferirsi in Valchiavenna, tutto d‘un tratto il motivo della montagna diventa pervasivo, influenzandolo profondamente: la montagna anche come metafora per l’isolamento e la solitudine, per l’angustia e l’ineluttabilità, per un’esistenza ombrosa. Un ulteriore filone artistico manifesta l’interesse virulento di Bruno Ritter per gli stati metamorfici, per la simbiosi di corpi e paesaggi, per l’antropomorfismo, dove si può parlare di paesaggi corporali e corpi paesaggistici. Un terzo, recente gruppo di opere si confronta con il celebre quadro di Theodore Géricault La zattera della medusa del 1819, già al centro di scandali, opera che con i suoi molteplici aspetti metaforici fu promossa a vero incunabolo per il primo realismo in Francia. Bruno Ritter ha attualizzato il soggetto trasponendolo dal mare lontano nella valle racchiusa dalle montagne. Ci limitiamo a questi cenni succinti su appena tre filoni artistici, racchiusi in un ben più ampio repertorio iconografico.
Quello che m’affascina nell’arte di Bruno Ritter, molto più degli aspetti determinati dal contenuto, è il suo rapporto virtuoso con la tradizione della pittura e del disegno: poiché non dimentichiamoci che Ritter è anche disegnatore e acquafortista di talento, che sa maneggiare pressoché con magistrale perfezione bulino e punta per incisioni. La frase: ogni quadro è dipinto da cento pittori, si applica a Bruno Ritter in modo pressoché esemplare. Egli è un esperto della storia della pittura e fa suoi i risultati dei grandi maestri – non superficialmente, ecletticamente o senza riflessioni in senso postmoderno, bensì confrontandosi in maniera oltremodo intensa, originale e inspirata. Attraverso la sua interazione con la pittura dei Nabis, con quella di Paul Cezanne, Vincent van Gogh, Giovanni Giacometti, Max Beckmann, Varlin e diversi altri, si è posto e si pone delle esigenze altissime, imperterrito mantiene la sua fede nelle possibilità della pittura e – ciò è l’essenziale – raggiunge così, risultati pittorici del tutto indipendenti che nella loro assoluta attualità sanno essere affascinanti e convincenti.
Es ehrt und freut mich, Ihnen nun den neuen Preisträger für das Jahr 2000 mit ein paar knappen Sätzen vorzustellen und zu würdigen. Nach Gaspare O. Melcher, Gregori Bezzola, Not Vital und Jacques Gui- don geht der «Premi Cultural Paradies» in diesem Jahr an den 1951 in Cham geborenen und seit 1982 im Valchiavenna arbeitenden Maler, Zeichner und Druckgraphiker Bruno Ritter.
Das grosse, einzelne Bild, das uns zur Beurteilung vor Augen stand und jetzt auch Sie, meine Damen und Herren, zur genaueren Betrachtung einlädt, zeichnet sich in mannigfacher Hinsicht als ein autonomes, in sich geschlossenes und in allen Belangen hervorragendes Stück Malerei aus. Wie könnte es auch anders sein für denjenigen, der die herben Stein- und Schlammgebilde des Chiavennatals als Lebensraum gewählt hat, jene Felsen, die 1618 durch ihren Absturz die Häuser von Piuro ins Erdinnere zurückgedrückt haben; jene Berge, die bei jedem Schnee- oder Regenfall, bei jedem Sommergewitter angstvoll und mit einem stillen Gebet hochblicken lassen. Ritter kommt als Mensch und als Künstler aus dieser Enge: der physischen Enge eines versenkten Tals, das den eigenen Horizont aufhebt, aber auch der geographichen Enge einer sich immer mehr verschliessenden Schweiz und der psychischen Enge einer selbstgewollten, aber nicht minder schmerzlichen Isolation. Es gibt also keinerlei Bruch zwischen dem Motiv des Flosses als minimalem Raum, der keine Ausdehnung, keinen Atem, kein Wachstum und im weiteren Sinne keine Entwicklung erlaubt, und den Ritter so wichtigen Themen des drohenden Berges oder der Badewanne, zwischen deren eiskalten emaillierten Wänden sich die Körper in entsetzlichen Stellungen winden. Dass die scheinbare Selbstverständlichkeit und «Leichtigkeit» des Bildes erst aufgrund eines langwierigen und bestimmt auch schmerzvollen Schaffensprozesses errungen werden konnte, scheint ebenso einsichtig wie das Wissen darum, dass dieses Gemälde – wie jedes andere auch – erst vor dem Hintergrund eines langen, unerbittlich und beharrlich geführten Malerdaseins entstehen konnte.
Es handelt sich (wenigstens vorerst und vordergründig) um nichts anderes als um Malerei als Malerei, um eine Malerei, die aus dem reinen Akt des Malens gewonnen wurde – nehmen und lesen wir das Bild als Bild. Insofern ist es nur folgerichtig, wenn wir von einem erkennbaren Gegenstand gar nicht erst gesprochen und die bemalte Fläche im Sinne der informellen Malerei beurteilt haben. Wenn wir dann bei genauerer Betrachtung oder besser: Im landläufigen Bemühen, stets etwas Greifbares, gegenständlich Bestimmbares ausmachen zu wollen, die Malerei mit ihrem Unten und Oben und mit ihrer augenscheinlichen Tiefenentwicklung beispielsweise mit Landschaftlichem assoziieren, triffl sich dies durchaus mit den Intentionen des Künstlers. Nur meint das Bild, so wie ich es lese, weit weniger das topographisch Erkennbare als vielmehr den geognostischen Blick auf das Innere, welches sich hinter und unter der Oberfläche verbirgt – insofern eine eigentliche Seelenlandschaft mit allen Höhen und Tiefen existentieller Befindlichkeit.
Bruno Ritter wusste stets und bewusst zwischen Abstraktion, Figuration und Ungegenständlichkeit zu lavieren. Eine derartige Festlegung war für ihn als Vollblutmaler nie von relevanter Bedeutung. Gleichwohl kann man im reicheri (Euvre die meisten Werke aufgrund ihrer Ikonographie ganzen Werkgruppen zuordnen, was von der bisherigen Rezeption denn auch wiederholt und explizit von den Autoren der Kataloge von 1992 und 1996, auch getan wurde. Mit der jähen biographischen Zäsur von 1982, als sich Bruno Ritter vorsätzlich aus der Stadt Zürich zurückzog und ins Valchiavenna übersiedelte, wurde unvermittelt das Motiv des Berges übermächtig und prägend: Der Berg unter anderem als Metapher für die Einsamkeit und Verlorenheit, für die Enge und die Unausweichlichkeit, für verschattete Existenz. Ein anderer Werkkomplex manifestiert das virulente Interesse von Bruno Ritter für metamorphotische Zutände, für die Symbiose von Körper und Landschaft, für Anthropomorphes, wo von Körperlandschaften und von Landschaftskörpern gesprochen werden kann. Eine dritte, jüngere Werkgruppe setzt sich mit dem berühmten und skandalumwitterten Bild Das Floss der Medusa von Theodore Géricault aus dem Jahr 1819 auseinander, das mit seiner vielschichti- gen Metaphorik zu einer wahren Inkunabel für den frühen Realismus in Frankreich avancierte. Bruno Ritter aktualisiert den Stoff und transponiert ihn vom fernen Meer in das von Bergen geschlossene Tal. Wir belassen es bei diesen knappen Hinweisen auf nur gerade drei wichtige Werkkomplexe innerhalb eines weit umfassenderen ikonographischen Repertoires.
Was mich bei Bruno Ritters Kunst weit mehr fasziniert als die inhaltlich determinierten Aspekte ist sein virtuoser Umgang mit der Tradition der Malerei und mit jener der Zeichnung: Denn vergessen wir nicht, dass Ritter auch ein begnadeter Zeichner und Radierer ist, welcher in geradezu altmeisterlicher Perfektion mit Stift und Stichel umzugehen weiss. Der Satz: Jedes Bild ist von hundert Malern gemalt, trifft für Bruno Ritter geradezu exemplarisch zu. Er kennt sich in der Geschichte der Malerei bestens aus und macht sich die Leistungen der grossen Meister zu eigen – nicht etwa oberflächlich eklektizistisch oder unreflektiert im postmodernen Sinne, sondern in einer äusserst intensiven, originären und inspirierenden Auseinandersetzung. Mit seinen Interaktionen zur Malerei der Nabis, zu jener von Paul Cezanne, Vincent van Gogh, Giovanni Giacometti, Max Beckmann, Varlin und manchen anderen setzte und setzt er sich selber einen enorm hohen Anspruch, hielt unbeirrt den Glauben an die Möglichkeiten der Malerei aufrecht und – das ist das Entscheidende – gelangt ‚ damit zu höchst eigenständigen bildnerischen Resultaten, die in ihrer unbedingten Aktualität zu faszinieren und zu überzeugen wissen.
Wenn sich Bruno Ritter mit dem Blick in den Spiegel selbst darstellt, knüpft er an die lange Tradition bedeutender Selbstbildnisse an, die in ungeschönter Konfrontation mit dem eigenen Gegenüber zwischen Resignation und trotziger Selbstbehauptung lavieren. Wir denken dabei – um bloss wenige Beispiele der Moderne zu nennen – etwa an Arnold Böcklins melodramatisches Selbstbildnis mit fiedelndem Tod (1872), an das Selbstbildnis mit Skelett (1896) von Lovis Corinth, an James Ensors Selbstbildnis mit Masken (1899) oder an Edvard Munchs Selbstbildnis mit skelettiertem Arm (1895). Thematisiert wird bei diesen schonungslosen Selbstbespiegelungen letztlich die latente existenzielle Gefährdung als Mensch und Künstler, der sich auch Bruno Ritter ständig ausgesetzt sieht – auch wenn er abwiegelnd meint, seine Selbstdarstellungen seien in erster Linie Studien, um die mit Licht und Schatten modellierte Körperlichkeit malerisch zu bewältigen oder um sich an ihnen von den Ärgernissen des Alltags abzureagieren. Jedenfalls kommt bei diesen unverhohlenen Selbstbefragungen die momentane Befindlichkeit in der Körpersprache, in der Physiognomie, im Pinselduktus sowie in der Chromatik ebenso unverschleiert zum Ausdruck wie in der Situierung des eigenen Ich im Verhältnis zum Raum, der entweder ins bodenlose Leere stürzt oder den Blick in die Tiefen des Atelier freigibt. Im Dialog mit den Artefakten des eigenen Tuns weist sich der Dargestellte nicht nur als Maler aus, sondern verortet sich mit jenem intimen Ort, an dem die Genese des eigenen Kunstwollens vonstattengeht.
Nach Jahrzehnten intensiver Arbeit ist inzwischen ein immenses künstlerisches OEuvre entstanden, das verschiedene, inhaltlich zu determinierende Werkgruppen umfasst. Diese greifen vielfach ineinander und werden von Bruno Ritter in abgewandelter Form oder neuen Facetten und Abwandlungen immer wieder aufgegriffen, erweitert und vorangetrieben. Die Rezeption des Schaffens von Bruno Ritter auf Grund der zahlreichen Ausstellungen erfolgte zumeist kongruent mit dem Hervorbringen der unterschiedlichen Werkkomplexe. Parallel dazu ist in den kunsthistorischen Beiträgen wiederholt vom «Grenzkünstler» und vom «Pendler» die Rede, um den Künstler, mit dem spezifischen Mentalitätsraum des Bergells und des Val Chiavenna in Verbindung zu bringen, wohin es Bruno Ritter schon früh, 1982, von Schaffhausen und Zürich verschlagen hatte.1 Im Text Maloja-Chiavenna-Drift (1934) hat der Philosoph Ernst Bloch (1885– 1977) über dieses Tal gemeint, dass zwar «nicht alle Wege herab von vornherein trüb» stimmen, wo aber die Berge «in unglaubwürdige Höhe» wachsen und «jeden Blickbezug zum Boden» verlassen. Die Berge nehmen hier «fast jeden Raum zwischen sich und einem Himmel, wohin sie nicht so sehr ragen» zur Hälfte weg und sind «selbst Himmel geworden»: «es ist terminus 2 humanitatis.2 Gewiss: der Landschaftsraum, den der Künstler Tag für Tag von Norden nach Süden und wieder zurück durchmisst, wirkt sich auf das künstlerische Tun prägend aus. Aber von ebenso grosser Bedeutung erscheint mir für das Verständnis der Werke von Bruno Ritter das «Grenzgängerische» in der steten und fruchtbaren Auseinandersetzung mit den alten Meistern und der Tradition der Malerei von Matthias Grünewald über Rembrandt, Peter Paul Rubens und Pieter Bruegel bis zu Théodore Géricault3 und Paul Cézanne, um nur wenige, herausragende Beispiele zu nennen. Ich habe in früheren Beiträgen zu Bruno Ritter expliziert auf diesen Aspekt hingewiesen.4 So setzt sich Ritter die Messlatte bewusst sehr hoch. Auf Grund dieser Ambition resultiert indes eine höchst virtuose Malerei, die ihren Gegenstand mit adäquatem Pinselduktus, delikatem Spiel von Licht und Schatten, sorgsamer und frappanter Farbgebung sowie meisterhafter Komposition auf die Leinwand bannt. Im Weiteren bringt Bruno Ritter eine Malerei hervor, die bei aller Meisterhaftigkeit nie vordergründig ist, sondern stets hintersinnig und bedeutungsvoll.
Wenn sich Bruno Ritter in Selbstbildnissen ergründet, steht ihm das eigene Ich als Modell immerfort zur Verfügung, genauso aber auch das eigene, übervolle und scheinbar chaotische Atelier, seine unmittelbarste Umgebung, sein Rückzugsort im Erdgeschoss des Balbiani Palastes mitten in Chiavenna, wo er in der Abgeschiedenheit von der Aussenwelt – dietro le mura – seine Kunstwerke hervorbringt. Trotz der zahllosen banalen Gegenstände, die im Atelier herumstehen und angehäuft wurden – Mobiliar, Farbtöpfe, Gläser, Papierberge, Leinwände, Pflanzen, Staffeleien, Rahmen, Zeichnungen an den Wänden etc. –, erweisen sich die Atelierbilder als spektakulär: Malereien, die auf die sich ständig verändernden Lichtsituationen subtil reagieren, die der Stofflichkeit der Dinge Rechnung tragen und vor allem die sich im extrem schmalen Breitformat zum Panoramabild weiten. In der leicht verzerrten Perspektive wird eine umfassende Räumlichkeit evoziert, bei welcher der Blick auf das Naheliegende zum Blick auf die Welt gereicht.
Die Fähigkeit und Strategie Bruno Ritters, sich künstlerisch mühelos zwischen scheinbar unversöhnlichen Polen zu bewegen, zwischen Tradition und Moderne oder zwischen Figuration und Abstraktion, manifestiert sich auf eindrückliche Weise in der Serie grosser Tuschepinselzeichnungen, die so genannte «scholar’s rocks» darstellen: Von chinesischen Gelehrten erkorene, solitäre Felsen oder Steine, die der meditativen Betrachtung dienen. Sie zeichnen sich durch eine besondere Ästhetik aus, etwa indem sie überhängend und asymmetrisch erscheinen oder an eine Figur gemahnen, also anthropomorphe Züge aufweisen. Hier setzt Bruno Ritter seine Faszination für die chinesische Kultur, die ihn seit seiner Jugend umtreibt und der er im Rietbergmuseum in Zürich immer wieder frönte, in eigene Arbeiten um – und er siedelt seine Gelehrtensteine ganz selbstverständlich im Bergell an, beziehungsweise er findet sie dort 3 unverfälscht so vor. Im nuancierten Lavieren der Tusche zwischen Hell und Dunkel, zwischen akkuratem Umriss und chiarsoscuro zaubert Bruno Ritter atmosphärisch dichte und frappante Formationen auf das Weiss des Blattgrundes – und die Anmutung an chinesische Kunst amalgamiert zwanglos auch mit der Deutschen Romantik und ihrer Naturfrömmigkeit.
Die Landschaften von Bruno Ritter erweisen sich als aufgewühlte, nervöse Ansichten eines Tales, in dem das Dörfchen Piuro mit den Kirchtürmen richtiggehend zu versinken droht.5 Die Natur erscheint von einer derart apokalyptischen Bedrohlichkeit, dass Oben und Unten, Fels und Himmel, in ihr Gegenteil zu kippen drohen. Heraufbeschworen wird ein schroffer, enger Landstrich, in dem das Dunkel der Schründe von einem unwirklich visionären Licht flackernd erhellt wird. Eröffnet wird der Blick auf eine dräuende, abgründige Bedrohlichkeit, wo sich das Grübeln über das dem Existenzielle unweigerlich einstellt. Im Unterschied dazu offenbaren sich die Ansichten des Bergeller Dorfes Borgonovo zwar etwas anmutiger, wären sie nicht expressiv verzerrt, durch jähe Erschliessung der Tiefenräumlichkeit dynamisiert und von einer anderen inneren Erregung durchpulst. Die Landschaften widerspiegeln zwar auch die individuelle Psyche des Malers, aber ebenso eindringlich die Empfindsamkeit einer ganzen Talbevölkerung.
Der menschliche Körper in aussergewöhnlichen Haltungen und in den abstrusesten Verrenkungen fasziniert Bruno Ritter seit langem und fordert ihn immer wieder zu neuen Bildfindungen, etwa in der Serie Unschlaf oder Schlaflosigkeit. Auf der mühseligen Suche nach linderndem Schlummer erprobt der Körper die seltsamsten Stellungen im Bett, verkrampft sich in bizarrer Haltung, um sich wenig später in die nächste unbequeme Stellung zu wälzen. Ritter hält solche verschrobene Körperstellungen fest, um die inneren Spannungen und die Befindlichkeiten anschaulich zu machen. Diese Auseinandersetzungen mit dem menschlichen Körper in ungewöhnlichen Stellungen und Situationen gemahnt an die Malerei des Barock an, wobei sich Bruno Ritter dem pathetischen Gehabe und der Idealisierung verweigert. Im Gegenteil: Wenn es um den ungeschönten Kampf zwischen den Menschen geht, wird jede Intimsphäre rücksichtslos durchbrochen, und im rüden Übergriff auf den anderen geht es letztlich um Leben und Tod. Das Bestialische und Barbarische des unvermittelten körperlichen Zugriffs zeigt sich in aller Grausamkeit. Es sind groteske Szenen, bei denen – und das macht nicht selten die Spannung bei Ritters Bildern aus – das vordergründig Dargestellte fliessend ins Gegenteilige mutiert, wenn etwa das Ringen doch eher eine intime Tanzbewegung evoziert oder wenn sich die Gewalt mit der unverblümten Erotik verbindet.
Ein anderes wesentliches Thema der Malerei, das bis in die frühe Neuzeit und in den Barock zurückreicht und von Bruno Ritter in zeitgenössischer Weise aufgegriffen wird, ist das Boot mit Ruderern oder Schiffbrüchigen. Die kunterbunte Gruppe sich fremder Menschen sieht sich in der Enge einer Barke der drohenden Gefahr ausgesetzt und gibt sich in der Verzweiflung und 4 Ausweglosigkeit, dem Trotz und dem Bangen hin, was in der zwar expressiv überzeichneten, aber gleichwohl detailgetreuen Schilderung von Gestik und Mimik der einzelnen Insassen zum Ausdruck kommt. Wenn bei aufkommender Panik die Koordination aus dem Ruder läuft, kommt es im Kampf um das nackte Leben zu Gewalt gegen den Nächsten, auch wenn die ganze Bootsgesellschaft unweigerlich dem Untergang zusteuert. Bruno Ritter entwirft eine zeitgemässe Metapher mit gesellschaftlichem, sozialem und religiösem Hintergrund, wie sie seit dem Narrenschiff (nach 1490) von Hieronymus Bosch (Musée du Louvre, Paris) ihre Gültigkeit und Brisanz bewahrt hat.
Quando Bruno Ritter con lo sguardo allo specchio raffigura sé stesso si rifà a una lunga tradizione di importanti autoritrattisti che, in un confronto genuino con l’io che gli sta di fronte, si destreggiavano tra rassegnazione e ostinata auto-affermazione. Si pensi – per citare solo alcuni esempi dell’arte moderna – al melodrammatico Autoritratto con la morte che suona il violino (1872) di Arnold Böcklin, all’Autoritratto con scheletro (1896) di Lovis Corinth, all’Autoritratto con maschere (1899) di James Ensor o all’Autoritratto con braccio di scheletro (1895) di Edvard Munch. In ultima analisi, con queste spietate rimirazioni del sé allo specchio, affrontano, come uomini e artisti, una latente minaccia esistenziale, alla quale anche Bruno Ritter si vede di continuo esposto – anche se, minimizzando, ritiene che i suoi autoritratti siano in primo luogo degli studi, con i quali riuscire a determinare pittoricamente la fisicità modellata da luci ed ombre o dei mezzi con cui sfogarsi delle piccole seccature quotidiane. In ogni caso, tramite queste schiette interrogazioni di sé stesso, emerge nitido lo stato d’animo del momento, manifestandosi attraverso il linguaggio del corpo, la fisionomia, la pennellata e il colore, come pure tramite il posizionamento del proprio io in relazione allo spazio, il quale o si getta in un vuoto senza fondo oppure lascia la via libera allo sguardo nella profondità dell’atelier. Dialogando con gli artefatti del proprio operato, il raffigurato dimostra non solo la propria identità di pittore, bensì si identifica con quel posto d’intimità, nel quale ha luogo la genesi del kunstwollen (volontà o intenzionalità artistica).
Dopo decenni di intenso lavoro artistico, si è formata un’opera omnia immensa che comprende diversi gruppi di opere, da determinare a livello contenutistico. Questi gruppi, in gran parte, si sovrappongono tra loro e vengono continuamente ripresi, ampliati e portati avanti, in forma modificata o con nuove sfaccettature e variazioni, da Bruno Ritter. La ricezione dell’operato di Bruno Ritter, grazie alle numerose mostre, è avvenuta perlopiù in coincidenza con la creazione dei differenti insiemi di opere. Parallelamente a ciò, nei saggi di profilo storico-artistico si parla ripetutamente di «artista di confine» e di «pendolare» per stabilire un legame con la specifica mentalità regionale della Val Bregaglia e della Val Chiavenna, dove Bruno Ritter partendo da Sciaffusa e Zurigo si è 2 ritrovato già molto presto, nel 1982.1 Nel testo Passaggio Maloja-Chiavenna (1934) , il filosofo Ernst Bloch (1885–1977) ha scritto di questa valle che «non tutte le strade in discesa rendono tristi fin dall’inizio», ma sì, dove le montagne raggiungono «un’altezza inverosimile» e abbandonano «ogni contatto visivo con il suolo». Per metà, qui le montagne si prendono «quasi tutto lo spazio tra sé e il cielo, dove però non si innalzano così tanto», sono diventate «esse stesse cielo»: è terminus humanitatis.2 Senza dubbio lo spazio paesaggistico che l’artista attraversa giorno per giorno da Nord a Sud e ritorno, influisce incisivamente sul suo operato artistico. Della stessa grande importanza, però, per la comprensione delle opere di Bruno Ritter, mi sembra il «pendolarismo» nel costante e fruttuoso confronto con gli antichi maestri e la tradizione pittorica da Matthias Grünewald, passando da Rembrandt, Peter Paul Rubens e Pieter Bruegel fino a Théodore Géricault3 e Paul Cézanne, per citare solo alcuni esempi di spicco. In altri saggi su Bruno Ritter, ho esplicitamente messo in evidenza questo aspetto.4 Così facendo, Ritter si pone consciamente l’asticella molto in alto. Intanto, grazie a questa ambizione, ne consegue una pittura altamente magistrale che fissa i propri soggetti sulla tela con una pennellata adeguata, un delicato gioco di luce e ombre, una resa del colore curata e sorprendente, nonché una composizione magistrale. Inoltre, Bruno Ritter crea una pittura che, in tutta la sua perfezione, non è mai superficiale, bensì costantemente a doppio senso e significativa.
Quando Bruno Ritter si indaga nell’autoritratto, il suo io è sempre a sua disposizione quale modello, ma altrettanto lo è il suo strapieno e apparentemente caotico atelier; il suo ambiente più immediato, il suo rifugio al piano terra del Palazzo Balbiani in mezzo a Chiavenna, dove isolato dal mondo esterno – dietro le mura – crea le sue opere d’arte. Nonostante gli innumerevoli oggetti banali sparsi nel suo atelier e ammassati nel tempo – mobilia, vasetti di colore, bicchieri, cumuli di carta, tele, piante, cavalletti, cornici, disegni alle pareti ecc. –, i quadri dell’atelier si sono rivelati spettacolari: dipinti che reagiscono in modo sottile ai continui cambiamenti di luce, che tengono conto della materialità delle cose e, soprattutto, che si allargano da sottilissimi formati larghi in quadri panoramici. Nella prospettiva leggermente distorta, viene evocata una spazialità imponente, tramite la quale lo sguardo su ciò che è vicino ridonda nello sguardo verso il mondo.
La capacità e strategia di Bruno Ritter di muoversi, dal punto di vista artistico, senza alcuno sforzo tra poli in apparenza inconciliabili, tra tradizione e modernità o tra arte 3 figurativa e astrattismo, si manifesta, in modo grandioso, nella serie dei grandi dipinti a china, che raffigurano i cosiddetti «scholar’s rocks»: rocce o pietre solitarie scelte da eruditi cinesi, utilizzate per la contemplazione meditativa. Si distinguono per la loro estetica particolare, presentando, per esempio, sembianze pendenti e asimmetriche o che richiamano una figura ovvero che presentano dei tratti antropomorfi. Qui Bruno Ritter mette in pratica nel suo lavoro, il suo essere affascinato dalla cultura cinese che lo tormenta dalla gioventù e alla quale si abbandonava di continuo presso il museo Rietberg a Zurigo (e naturalmente colloca le sue pietre di eruditi in Bregaglia o, meglio, se le ritrova là incontaminate). Destreggiandosi con ricchezza di sfumature con la china tra luce e ombra, tra profili precisi e chiaroscuri, Bruno Ritter trasferisce come per magia formazioni stupefacenti, dense di atmosfera sul bianco sfondo del foglio ( e le pretese all’arte cinese si amalgamo con disinvoltura anche al romanticismo tedesco e la sua devozione per la natura).
I paesaggi di Bruno Ritter si rivelano quali sconvolgenti, nervose vedute di una valle nella quale il paesello di Piuro con il suo campanile preannunzia di sprofondare.5 La natura appare di una tale apocalittica minacciosità che l’alto e il basso, la roccia e il cielo fanno temere di ribaltarsi nel loro contrario. Evocando una zona scoscesa, stretta, nella quale l’oscurità dell’abisso viene rischiarata da una tremolante luce irreale e visionaria. Lo sguardo si apre su una minaccia incombente e profonda, dove il rimuginare sull’esistenziale inevitabilmente cessa. A differenza di questi paesaggi, le vedute del villaggio bregagliotto di Borgonovo si rivelano decisamente più amene, se non fossero espressivamente distorte, dinamizzate tramite una repentina creazione di una profonda spazialità e pervase da una diversa eccitazione interiore. I paesaggi rispecchiano certamente la psiche individuale del pittore, ma altrettanto incisivamente la sensibilità dell’intera popolazione della valle.
Il corpo umano in pose insolite e nelle più astruse contorsioni ha da sempre affascinato Bruno Ritter e lo ha spronato verso composizioni sempre nuove, come, ad esempio, nella serie non-sonno o insonnia. Alla travagliata ricerca di un sonno ristoratore il corpo sperimenta nel letto le più strane posizioni, si irrigidisce in pose bizzarre, per rotolare poco dopo nella prossima posizione scomoda. Ritter immortala queste posizioni bislacche del corpo per illustrare gli stati d’animo e le tensioni interiori. Questo confronto con il corpo umano in posizioni e situazioni inconsuete è un richiamo alla pittura barocca, 4 sebbene Bruno Ritter si neghi a patetiche affettazioni e idealizzazioni. Al contrario, quando si tratta della nuda e cruda lotta tra le persone, ogni intimità viene violata senza riguardo e il rude attacco ai danni di qualcuno è, in fin dei conti, una questione di vita o di morte. La bestialità e la barbarie del repentino intervento fisico si mostra in tutta la sua crudeltà. Sono scene grottesche, nelle quali – e ciò non di rado fa risaltare la tensione nei quadri di Ritter– ciò che è raffigurato in superficie muta fluidamente nell’opposto, quando, ad esempio, la lotta evoca piuttosto un intimo passo di danza o quando la forza bruta si unisce ad un erotismo senza fronzoli.
Un altro tema essenziale della pittura, che risale agli inizi dell’epoca moderna e al Barocco, il quale viene ripreso in chiave moderna da Bruno Ritter, è quello dell’imbarcazione con rematori o naufraghi. Il variegato gruppo di persone, estranee tra di loro, si ritrova in una barca angusta, esposto a pericoli imminenti e impossibilitato di trovare una via d’uscita, si abbandona alla disperazione, all’ostinato capriccio e all’agitazione, cosa che emerge nella dettagliata illustrazione di gestualità e mimica dei singoli passeggeri, nonostante il tratto decisamente carico. Quando, a causa del panico insorgente, la coordinazione sfugge al controllo, nella lotta per salvarsi la pelle, si arriva alla violenza verso il prossimo, anche se l’intero equipaggio naviga inevitabilmente verso il naufragio. Bruno Ritter concepisce una metafora attuale con uno sfondo sociale e religioso, come quella che si è mantenuta valida e dirompente a partire dalla Nave dei folli (dopo il 1490) di Hieronymus Bosch (Musée du Louvre, Paris).
Caro Bruno, grazie del libro. Ho rivisto un pò della tua pittura. Il tuo informale e colmo di tensioni: pare che tu pensi alla felicità, ma, in realtà, sei convinto che l‘uomo è in piena dissoluzione. Piacerebbe anche a me leggere mie poesie davanti ai tuoi quadri come ha fatto Ralph Dutli: in Italia lo faccio spesso, ma Sciaffusa e troppo lontana. Gli acquarelli di Sciaffusa sono intensissimi: sembrano percorsi della memoria delle cose più affettuose della tua vita. Si vede benissimo che anche tu sei un „pendolare“: vai, torni, attraversi valichi, strade, nuvole. Nelle ultime pagine torna la „figurazione“ – un vecchio amore - le case, gli alberi, le montagne. La serie del „pendolare“ mi pare interessante, come anche quella delle „lettere del medico francese (il „caso confinante“): le figure sulle vecchie parole scritte risuscitano i morti e rappresentano il commento più feroce contro tutte le guerre: tu ci disegni sopra per risuscitarle. La memoria delle cose da di- menticare non finisce mai. Il resoconto del medico francese torna a far rivivere tutti i suoi morti. E le guerra appare ancora più sporca. Vivi felice. Siamo troppo lontani per tentare una collaborazione ed io sto diventando troppo vecchio per muovermi. Auguri per il tuo lavoro. Un abbraccio.
L’insegnamento, le molteplici esperienze di vita e di lavoro italo-svizzere, il pendolarismo, anche quello tra confini, le mostre e le collaborazioni sono voci fondamentali per meglio definire il curriculum vitae di Bruno Ritter: artista attentissimo nella sintesi dei molteplici input accolti e nella successiva riproposta in chiave pittorica e grafica degli stessi, con cui egli formula la fondamentale interrogazione: e dopo ?
Intanto, ciò che colpisce del viaggio umano ed artistico di Ritter, a partire dalla natia Cham, proseguendo tra Sciaffusa, Neuhausen e Zurigo, fino ad arrivare alle valli Bregaglia e Chiavenna, è la costante ossessionata tensione nell’indagare le azioni e l’immobilità del tempo che, trascorrendo inesorabilmente, corrode l’uomo e al contempo lascia immutati quei silenzi montani costituiti da rocce, nevi, cieli e consuetudini umane comuni in tutte le vallate del mondo a cui egli appartiene.
La sovrapposizione, infatti, di volti raffigurati di tre quarti alla maniera di Rudolf Hausner, la sospensione delle atmosfere e i colori accesi propri dell’espressionismo realistico di Otto Dix, i mondi onirici di Ernst Fuchs e Wolfgang Hutter sono tutti elementi da tenere in considerazione nel percorso artistico di Ritter il quale offre i propri soggetti – specialmente quelli in cui le figure umane e il loro confrontarsi sono protagonisti assoluti – ad una sacralità sottolineata dall’impostazione delle tele in forma di trittici o dittici, come avveniva nella pittura tedesca del Quattro e Cinquecento, quella di Grünenwald o di Dürer per intenderci, racchiudendo e donando una innovativa posizione a quella umanità della montagna che diviene, nei suoi silenzi, nuova anima purgante del suo mondo.
Anche l’incontro con la pittura italiana, mediata dai contatti con i critici Giovanni Testori e Raffaele De Grada, è ispirazione dominante del progressivo percorso artistico di Ritter che, nei realisti degli anni Trenta della Scuola Romana, quali Mafai, Scipione, e nei referenti dell’avanguardia milanese, come Birolli, Carlo Levi e Aligi Sassu, o ancora nel Gruppo dei Sei di Torino e in Emilio Vedova, recupera, facendo propri e trasformandoli, fondamentali insegnamenti e nuove dinamiche d’ispirazione.
Ulteriore sguardo e conseguenti propulsioni di creatività Ritter li ritrova successivamente anche in quell’informale materico distillato da Morlotti, Chighine e Repetto, e ricomposto specie nella densità delle cromie e nella vibrazione della pennellata sfaldata e riscontrabile nei paesaggi montani, addolciti nella loro drammatica ed immobile entità fisica e psicologica.
Il suo stile, l’impronta della medesima pittura ed anche del gesto grafico, è sempre netto, non solo nell’esecuzione, ma anche nella padronanza di senso con cui rappresenta l’interiorità che in questo lavoro s’irradia.
L’effetto apparentemente ambiguo, se letto con attenzione e ricercandone una corresponsione con la propria sensibilità, genera una tensione ammirata, oltre che verso la risoluzione estetica, anche verso una più profonda proposta di riflessione. Tale modalità meditativa è resa pittoricamente in uno sfumare fino ad impallidire, e a quasi rendere abbacinante la realtà rappresentata e i soggetti, così da amplificarne la sensazione di sospensione nel tempo e favorendo così una percezione prepotente di silenzio: luogo cruciale della meditazione.
In Bruno Ritter, in cui le accese cromie della narrazione riconducono ineluttabilmente ad ispirazioni desunte dalla cultura espressionista di matrice tedesca e delle contrapposizioni di linee/luce, rimandano all’impronta catturata dalla conoscenza raffinata del segno grafico, è possibile leggere un sistematico modus indagatore con cui ricercare concrete, desiderate e credibili risposte interiori ancora, purtroppo, non soddisfatte pienamente dell’interesse pubblico.
I bianchi e i soggetti silenziosi, di cui mirabilmente evoca origini (per i luoghi) e tradizioni (per gli uomini), sono strumenti del linguaggio spinti a superare lo scoglio della pura materia dipinta, fino a darne forma albina, ricca di più denso significato se intesa in forma di luce e oltre l’immagine d’una formula. L’effetto è quello di trasformare la luce medesima in una modalità e possibilità personalissime di risposta alla struggente domanda interiore, che la montagna con le proprie barriere visive da sempre impone all’uomo che ivi nasce e vive.
L’Enge, il concetto di strettoia che, per la cultura svizzera, è definizione di chiusura geografica, umana e psichica, ha finalmente con Ritter una nuova opportunità di superamento, grazie alla propria esperienza, oltre che di pendolare tra confini, tra orizzonti e strutture formali, anche attraverso la sua proposta di soluzione: costruire l’opera per piani pittorici, dedicando all’espressività del gesto e della forma della natura umana il primo piano e relegando le risposte alla domanda ultima, quella ontologica, al piano di fondo. Ciascuno ha l’opportunità liberamente di poter completare da sé, mentalmente, e con ampio margine di spazio, senza l’incognita di tempo e spazio, il proprio orizzonte.
Ritter è, quindi, attento narratore sia dell’animo umano sia degli scenari naturali, di cui conosce profondamente dinamiche e segni, e dei quali sa cogliere, con uno sguardo drammaticamente spalancato, la intrinseca lacerante domanda che tende verso l’ignoto, e che trasforma l’intera realtà in una immensa fisica e mentale Enge, oltre cui si delinea la luce: la risposta.
Nel trittico Al bar (2009, 100x280 cm.) il vociare attento e silente di un anonimo luogo di ritrovo, appunto un bar, di un borgo di montagna descrive perfettamente l’atmosfera di una consuetudine tradizionale, di un sentimento e di un tessuto sociale in cui le proprie solitudini vengono condivise in una convivialità tutt’altro che manifesta, piuttosto malinconica e pervasa da un’attesa, da una domanda, che forse può avere risposta non espressa nello sfondo bianco dal quale emergono: per accenni, contorni indefiniti, figure e possibili altri luoghi dell’umanità.
Nei calici pieni o che stanno per essere riempiti c’è tutto il desiderio di creare e cercare un momento, un clima d’incontro lontano dai propri eremi; si percepisce nell’occasione ancora un certo imbarazzo, un muoversi impacciato ad aprirsi alla propria umanità preannunciato dall’incrocio di sguardi, in una espressività dettata dalla genetica di ciascun uomo della montagna. I volti dagli occhi profondi, sono tutti assorti, tesi ad un qualsiasi segno che inneschi il contatto in quella altrui umanità ricercata tacitamente che però la montagna, con le sue leggi, ha da sempre resa introversa.
Nel trittico Discorso chiaro (2009, 100x280 cm.), smaterializzando parzialmente la figura, Ritter lascia posto al convulso e motivato gesticolare delle mani, vive e più chiarificatrici assistenti della parola, cogliendo pienamente uno dei loghi dell’umano più densi, oltre che di segni, anche di teatrale espressività. Il volto non conta, si dissolve nella luce, ma risiede tutto nel movimento delle mani il piano della comunicazione emotiva, resa con coloristica energia e intensità materica. Le parole mute rimandano ad orizzonti e confini indefiniti, sfondo di innumerevoli parole che si perdono nell’oblio di chi le pronuncia per riempire vuoti interiori che tra le montagne generano grandi eco di solitudine.
L’artista svizzero, genialmente, in un imponente trittico, descrive l’assenza, il colloquiare concitato, il gesticolare motivato, in una vaga espressività dei volti che assumono minore importanza rispetto alla consuetudine di comunicare di un mondo come quello della montagna e al nebbioso-abbagliante orizzonte che sta alle spalle di ciascuno.
Pianazzola (2009, 100x120 cm.) per chi la osserva da Chiavenna, voltandosi verso Nord, appare come un pugno di case abbarbicate su un costone boscoso, per la precisione quello del Pizzo Alto. Bruno Ritter ne ha colto il paradigma pittorico, ricostruendo con un’istanza forte di nuvole basse e nevi candide, il luogo orografico e naturale, dove l’asperità, che conduce oltre il limite umano e geografico, diviene sinonimo di tensione verso un orizzonte di luce che promette il superamento del confine o certamente, almeno, apre la memoria e l’evocazione alla totalità. L’inerpicarsi della via asfaltata che l’uomo ha realizzato per raggiungere quel confine è, oltre che stupefacente, anche segno zig-zagante e denso per raggiungere una meta, sebbene piccola ed isolata, punto di partenza per l’ulteriore limes e per l’immensurabile poeticità del tema. La cupa e silente atmosfera dei boschi sono preludio alla luce, all’oltre.
La Veduta / Aussicht (2009, 100x120 cm.) montana – punto non precisato della Val Bregaglia – è costruita attraverso un piano di osservazione più alto rispetto alla più consueta visione di un paesaggio. L’espediente è decisamente voluto, affinché lo sguardo sia obbligato a tendersi più verso l’alto, alla ricerca di qualcosa o qualcuno, forse proprio se stessi e in una vaporosa e cosmica sperimentabilità.
Le sovrapposizioni inoltre di cromie più cupe, che allontanandosi si accendono di luminoso bianco sono nell’opera di Ritter indizio di speranza per il manifestarsi di una limpida verità; dalla profondità tenebrosa, a tratti tetra, della montagna più vicina all’uomo, costituita da boschi e prati. Infatti si è trasportati là, oltre il pendio, in quel confine fatto di cime innevate, verso un cielo denso, affascinante e minaccioso e, più in là ancora, verso quel candore di nuvole che non definisce il limite, anzi lo confondono e lo assorbono oltre il paradigma fotografico, ed anzi similitudine di una spontanea e metafisica ascesa.
Die Lehrtätigkeit, die verschiedenen Lebens- und Arbeitserfahrungen zwischen Italien und der Schweiz, das Pendeln auch zwischen Grenzen, die Ausstellungen und Mitarbeiten sind grundsätzliche Begriffe im Lebenslauf von Bruno Ritter: ein Künstler, dessen Aufmerksamkeit der Synthese der vielen aufgegriffenen Inputs und deren malerischen und grafischen Verarbeitung gilt, durch die er die grundsätzliche Frage stellt: und danach?
In dem menschlichen wie im künstlerischen Weg von Bruno Ritter, der ihn vom Geburtsort Cham über Schaffhausen, Neuhausen und Zürich in das Bergell und das Valchiavenna führt, fällt vorerst die stete obsessive Spannung auf, mit der er das Handeln und die Bewegungslosigkeit der Zeit angeht, die in ihrem erbarmungslosen Ablauf am Menschen nagt und gleichzeitig jene schweigende Bergwelt unverändert lässt, welche aus Gestein, Schnee, Himmel, in allen Tälern der Welt, eigene menschliche Gewohnheiten entstehen, denen er sich zugehörig fühlt. Die Überlagerung von Gesichtern, die in Rudolf Hausner-Manier zu drei Viertel gezeigt werden, die Aufhebung der Atmosphären und die leuchtenden Farben, die an den realistischen Expressionismus eines Otto Dix’ erinnern, sowie die Traumwelten eines Ernst Fuchs’ oder Wolfgang Hutters sind lauter Elemente, deren Bedeutung im künstlerischen Werdegang Ritters gewürdigt werden muss; er stellt seine Motive - vor allem dort, wo die menschlichen Figuren und ihr aufeinander Eingehen im Zentrum stehen - in den Dienst einer Sakralität, die durch die Form des Triptychons oder des Diptychons, wie sie in der deutschen Malerei von Grünewald oder Dürer im 15. und 16. Jahrhundert vorkommt, noch unterstrichen wird; darin verschlossen und angeboten ist eine neue Position für jene Menschheit der Bergwelt, die in ihrem Schweigen zur neuen reinigenden Seele ihrer Welt wird.
Auch der Umgang mit der italienischen Malerei, vermittelt durch die Kontakte mit den Kritikern Giovanni Testori und Raffaele De Grada, bleibt eine wichtige Inspirationsquelle in der künstlerischen Entwicklung Ritters; er holt sich bei den Realisten der Scuola Romana der Dreißiger Jahre wie Mafai und Scipione und bei den Hauptfiguren der Mailänder Avantgarde wie Birolli, Carlo Levi und Aligi Sassu oder auch beim Gruppo dei Sei aus Turin und bei Emilio Vedova ein Wissen und neue Inspirationen, die er sich dann durch persönliche und originelle Verarbeitung einverleibt. Einen noch anderen Blick mit noch anderen Anregungen findet Ritter später auch in der informellen auf Materie zentrierten Arbeit von Morlotti, Chighine und Repetto, deren Essenz er vor allem in der Dichte der Farben und im Vibrieren des sich auflösenden Pinselstriches neu konstituiert, wie man ihn in den in ihrem dramatischen und unbeweglichen physischen und psychologischen Wesen gemilderten Berglandschaften findet.
Seine Handschrift, die Spur des Mal- und Zeichengestus’ bleibt immer sauber und klar; nicht nur in der Ausführung sondern auch in der Sinnbeherrschung, mit welcher er die Innerlichkeit, die aus dieser Arbeit strahlt, darstellt.
Betrachtet man sie aufmerksam auf der Suche eines von der eigenen Sensibilität ausgehenden Verständnisses, führt die scheinbar zweideutige Wirkung über eine bewundernde Spannung nicht nur hin zur ästhetischen Auf-Lösung, sondern auch zu einer weit tiefer gehenden Reflexion. Dieser meditative Duktus wird malerisch dargestellt durch ein zunehmendes Abtönen bis zum Verblassen, als blendeten die dargestellte Wirklichkeit und ihre Gegenstände, so dass das Gefühl der Zeitlosigkeit verstärkt und die Wahrnehmung der Stille dominant werden: das Herz einer jeden Meditation.
Man kann in Bruno Ritter, dessen leuchtende Farbigkeit des Erzählens unweigerlich auf die Wurzeln der expressionistischen Kultur deutscher Überlieferung weist und dessen Spiel mit Licht- Linien die Spur einer tiefen und subtilen Kenntnis des Grafischen bezeugt, eine suchende Haltung erkennen, die konkrete, erwünschte und glaubwürdige innere Antworten zum Ziel hat, die leider noch nicht vollständig vom öffentlichen Interesse erkannt werden. D
ie Weißtöne und die schweigenden Gegenstände, deren Ursprünge (für die Orte) und Traditionen (für die Menschen) er so gekonnt heraufbeschwört, sind Sprachmittel, die auf die Überwindung der reinen Malmaterie zielen, hin zu einer an Bedeutung weit reicheren Weißheit, wenn sie als Licht und jenseits einer bildhaften Formel verstanden wird.
Die Wirkung besteht darin, dass das Licht an sich umgeformt wird auf eine höchst persönliche Art und Weise der Beantwortung jener verzehrenden inneren Frage, welche der Berg mit seinen 1 visuellen Barrieren seit jeher dem dort geborenen und lebenden Menschen stellt. Die Enge, dieser in der Schweizer Kultur mit der Bedeutung der geografischen Abgeschiedenheit behaftete Begriff, erhält mit Ritter endlich eine neue Möglichkeit der Überwindung dank der persönlichen Erfahrung als Pendler zwischen den Grenzen, zwischen formalen Horizonten und Strukturen, aber auch durch den ihm eigenen Lösungsvorschlag: das Werk über Malebenen aufbauen, von denen die erste der Ausdruckskraft des Gestus’ und der Form der menschlichen Beschaffenheit gewidmet ist, während die Antworten auf die endgültige, das heißt die ontologische Frage, in den Hintergrund gerückt werden. Der Betrachter hat die Möglichkeit, frei und selbständig in Gedanken und mit großem Spielraum den eigenen Horizont ohne die unbekannte Größe Zeit- Raum zu ergänzen.
Ritter ist also aufmerksamer Erzähler sowohl der menschlichen Seele wie auch der Naturszenerie, mit deren Regungen und Zeichen er sich zutiefst auskennt und aus denen er mit dramatisch aufgerissenem Blick die verzehrende Frage herausliest, deren Antwort ins Unbekannte weist und welche die gesamte Wirklichkeit in eine unendliche körperliche und mentale Enge verwandelt, jenseits derer sich das Licht abzeichnet: die Antwort.
Im Triptychon Al bar (In der Bar 2009, 100x289 cm) beschreibt das stille und aufmerksame Stimmengewirr eines anonymen Ortes, einer Bar eben, in einem Bergdorf genau die Atmosphäre einer traditionellen Gewohnheit, eines Gefühls und eines sozialen Netzes, in dem die eigene Einsamkeit in einer durchaus nicht sichtbaren Geselligkeit geteilt wird, die eher melancholisch und von einer Erwartung oder einer Frage durchzogen scheint, deren nicht ausgesprochene Antwort vielleicht in dem weißen Hintergrund zu finden ist, aus dem andeutungsweise, als unbestimmte Konturen, Figuren und andere mögliche Orte der Menschheit sich abheben.
In den vollen oder zum Füllen bereit stehenden Gläsern ist der ganze Wunsch zu sehen, einen Moment, ein Klima des Zusammenkommens abseits der eigenen Einsiedelei zu schaffen und zu suchen; eine gewisse Hemmung ist noch erkennbar, unfreie Bewegungen einer zögerlichen Öffnung dem eigenen Menschsein gegenüber, welche sich im Austausch der Blicke ankündigt und in einer Ausdrucksstärke, die auf den Ursprung eines jeden Bergmenschen zurückzuführen ist. Die Gesichter mit den tief liegenden Augen sind konzentriert und aufmerksam jeder Regung gegenüber, die einen Kontakt mit der stillschweigend gesuchten Menschheit stiften kann, welche die Bergwelt mit ihren Gesetzen seit jeher verschlossen gemacht hat.
Im Tryptychon Discorso chiaro (Offenes Gespräch, 2009, 100x280 cm) öffnet sich Ritter durch die teilweise Entmaterialisierung der Figur den hektischen und verständlichen Gebärden der Hände, auf deren Mitteilungskraft eher Verlass ist als auf das Wort, und erreicht damit einer der an Zeichenhaftigkeit aber auch an theatralischer Ausdruckskraft dichtesten Orte des menschlichen Wesens. Nicht das sich im Licht auflösende Antlitz zählt, allein die Bewegungen der Hände vermitteln den emotionalen Inhalt der farblich kraftvollen und materisch intensiven Kommunikation. Die stummen Worte weisen auf unbestimmte Horizonte und Grenzen als Hintergrund jener unzähligen Wörter, die im Vergessen des sie Aussprechenden verloren gehen, um die inneren Leerräume zu füllen, die zwischen den Bergen das Echo der Einsamkeit widerhallen lassen. Der Schweizer Künstler hat auf geniale Art in einem imposanten Triptychon die Abwesenheit dargestellt, das hektische Sprechen und die notwendigen Gebärden mit einem angedeuteten Ausdruck der Gesichter, deren Bedeutung hinter die Gewohnheit des Sprechens zurückfällt, in der Bergwelt mit ihrem neblig-blendenden Horizont, der sich im Rücken eines jeden abzeichnet. Pianazzola (2009, 100x120 cm) erscheint, wenn man es von Chiavenna aus nordwärts betrachtet, als eine Handvoll Häuser, die sich an einem waldigen Steilhang, dem von dem Pizzo Alto, festkrallen.
Bruno Ritter ist es gelungen, das malerische Wesen dieses Ortes zu erfassen, indem die tief liegende Wolkenschicht im Zusammenspiel mit den makellosen Schneehängen der orographischen und natürlichen Landschaft eine Form gibt, in der die jenseits des Menschlichen und auch des Geographischen weisende Härte für das Streben nach einem Lichthorizont steht, der die Überwindung der Grenze verspricht oder zumindest mit Sicherheit die Erinnerung der Ganzheit öffnet.
Der Kletterweg, den der Mensch sich zur Erreichung dieser Grenze gebaut hat, ist nicht nur wundersam sondern gleichzeitig dichtes und unregelmäßiges Zeichen für die Erreichung eines zwar kleinen und isolierten Ziels, das aber Ausgangspunkt für einen weiteren limes und für die unermessliche dichterische Qualität des Themas ist.
Die dunkle und schweigende Atmosphäre des Waldes ist Vorzeichen für Licht, für Jenseits. Die Veduta / Aussicht (2009, 100x120 cm) auf die Berge – auf einen nicht näher definierten Punkt des Bergells – entspringt einer höher angesiedelten Beobachtungsebene als bei Landschaftsaussichten gewohnt. Es handelt sich um eine bewusste Wahl, damit der Blick sich höher zu richten habe, auf der Suche nach etwas oder jemand, vielleicht nach sich selbst in einer luftigen und kosmischen Möglichkeit.
Die Überlagerung von dunkleren Farbschichten, die sich nach und nach zu einem leuchtenden Weiß entfernen, stehen in Ritters Werk für die Hoffnung auf eine klare, erkennbare Wahrheit aus der dunklen, teilweise düsteren Tiefe des dem Menschen am nächsten stehenden Berges, aus Wälder und Wiesen. Man wird dorthin, jenseits des Hanges geführt, in diese aus schneebedeckten Gipfeln gebildete Grenze hin zu einem dichten, faszinierenden und bedrohlichen Himmel und noch weiter zu dieser Wolkenweiße, welche die Grenze nicht absteckt sondern im Gegenteil verwischt und jenseits einer fotografischen Absicht aufnimmt und zur Metapher für eine sich ergebende und metaphysische Erhöhung wird.
Es beginnt beim Berg.
Der Berg als Bedrohung und Zersetzung, Motiv der Isolation, Einsamkeit, Ursprung des Wahnsinns und der Verzweiflung. Auf dieser problematischen Situation baut sich die Malerei auf, äussert sich über Hass und Liebe zur Natur, zerstörende Kraft und mächtige Begleiterin. Der Konflikt dieser Motive bestimmt das Werk Ritter‘s. Bedrängende Abhänge, wo der Fels Wahnsinn bedeutet, in welche sich der Berg-Mensch zum Existenzkampf und zum Ueberleben rüstet.
Es gibt Momente, wo der „Gefangene“ aufgibt, wahnsinnig wird und (ab-)stürzt... Im Innersten zerrissen, noch in-sich-gebeugt, mit dem allerletzten Versuch sich zu wehren, mit der eigenen Realität fertig zu werden, springt er ins Leere . Jedoch der Mensch wächst und lernt. Der drohende Berg vereinigt sich mit dem Menschen: Ohne die vergangenen Konflikte zu vergessen, wird er im Berg eingebettet und bildet mit ihm eine Einheit. Der seelische Zustand des Schreibers für die Kraft, die Stimulanz in dieser Kunst, nährt sich an Eindrücken und Gegebenheiten, auch autobiografischen, welche sich aus der Vergangenheit erheben und wieder erwachen. In den stürzenden Figuren löst sich die Erinnerung an die „Selbstmörder“ von Canete, im brohlich, schattigen und engen Tal, wo Ritter die Athmosphäre vom Berg aufgenommen hat. Der Berg, das dominierende Motiv, wird in riesigen Figurenbildern festgehalten, neutrale Körper, ohne genaue Merkmale. Es entstehen „impressionistische“ Berg-Landschaften mit Figuren. Kompositionen mit warmen, heiteren Farben, nie ohne dramatische Spannung, „Gelb“, ein kreischendes, disharmonisches Gelb. Körper von Frauen in riesigen Formaten, eingezwängt in die Badewanne, oder einfach hingelegt in alltäglicher Bewegung. Die einstige Spannung, welche sich im Gegenstand ausdrückte ist nun der Farbe und der Form gewichen: Spannung und Dramatik springen zwischen Fläche und Volumen. Die neueste künstlerische Phase Ritter‘s ist noch interessanter und komplexer. Es handelt sich um die Erarbeitung eines monumentalen Werkes, welches sich annähert an das berühmte Werk Théodore Géricault‘s, Le radeau de la fregatte La Méduse. Nach seinen Glorien- und Heldenbildern konfrontierte er die Welt mit einem Bild von Tod und Verzweiflung, ein Werk der Zeit, welches das rein chronistische, des Unterganges des Floss‘ der Meduse, überwindet, um das Leiden und die Angst des Menschen offen zu legen. Ritter auf seine Weise - Es erscheinen tatsächlich Motive der Vergangenheit, eigentlich formale Motive, nervöser, bestimmter Strich, eine pastoser Pinselauftrag - gibt dem ewigen Ueberlebenskampf, der Rivalität des Einzelnen gegen die Gruppe (Masse), der Religion, Stimme. Sein Bild wird zur Zeitgeschichte, politisch, erotisch und psychisch. Es sind 15 Leinwände auf welchen der Künstler die Bestimmung des Einzelnen portraitiert, in seiner Hoffnung und Verzweiflung, im Lerben und Tod. Das Formatz ist hoch und schmal, wie ein Bergtal. Die Spannung ist stark, die Gestaltung wirkt gefangen und erzwungen im Bild. Die monumentalen Körper, bestraft im engen Raum des Bildes, sie kämpfen gegen ihr Format. Es sind gemalte Körper in verzweifelten Haltungen, welche die bizzarren Formen des Gebirges erinnern, aber auch den menschlichen Willen zeigen, den intensiven Wunsch nach Bewegung, des eigenen Raumes, des Ueberlebens. Das Element der Religion setzt hier ein, im immerwährenden Kampf, der Dramatik der Unendlichkeit. Die Protagonisten sind Hinterbliebene, Gefangene, Ertrinkende in der Geschichte mit entkräfteten Körpern, nach Oben gerichtet, mit den Händen vor dem Gesicht, verängstigte Figuren, die ihre eigene Tragödie in die Welt schreien. Einsame Individuen, von Konflickten und Ideologien ausgeschlossene, Menschen unserer Zeit, Zeugen von Kämpfen und Kriegen. 15 Bilder, die Zeugnis ablegen vom menschlichen Prozess des Ueberlebens. Es ist die Bewegung des Meeres, der Wellen, des Individuums, der Masse, der umgebenden Natur und ihrer Farbe. Das Bild in die Länge gezogen und schmal, wird zum Altar auf welchem das Leben, sowie die ewige Geschichte der Einsamkeit und des Nicht-Verstanden-werdens hingegeben wird.
Bruno Ritter è nato a Sciaffusa, in Svizzera, il 20 dicembre 1951. Diplomatosi alla Scuola d‘Arte di Zurigo, ha insegnato per qualche tempo figura e incisione in quella città e a Winterthur, prima di dedicarsi interamente alla pittura. In sieme a questa decisione sono maturati in lui il distacco dall‘ambiente urbano svizzero e la necessità di autoisolamento per una severa ricerca formale i cui esiti, nelle opere più recenti, ap paiono perfettamente delineati. Il punto di partenza di Ritter è il grido di Munch. Quel Grido del 1893 ha attraversato tut ta la cultura dell‘espressionismo tedesco, ha macerato le carni delle figure di Schiele, ha da to violenza al colore di Kokoschka e oggi prolunga la propria eco nella pittura di Ritter. Corpi dalle carni macerate, sfatti; bocche che gridano, disperatamente mute; uomini piegati nella degradante posizione del quadrupede; bestie nere che passeggiano nei quadri come enormi ombre inquietanti, montagne come legame tra cielo e terra, punto di fuga dalla realtà sociale e solido ancoraggio alla realtà naturale; anelito alla penetrazione sensuale della natura, solipsismo nei rapporti tra gli uomini, freddezza pietrificata della morte, atea pietas: questi al cuni temi ricorrenti nella pittura di Bruno Ritter, che oggi vive in una piccola frazione di Villa di Chiavenna appollaiata fra le balze della Bregaglia. Se le vie formali tentate finora da Ritter (dal realismo classico all‘informale, attraverso la su zione di tutti gli umori dell‘espressionismo mitteleuropeo) sembrano procedere per successi ve fratture, rinnegamenti e pentimenti, pure identica rimane la cifra stilistica: lo stridio e talora il grido die colori (sia nell‘accostamento, sia nella pennellata, sia nel loro rapporto con la superficie ruvida come la carta da pacco), la sottile vena caricaturale alla Grosz, I‘ironia negativa, I‘agitata inquietudine e gli incubi di uomini la cerati fra condizione subumana e aspirazione oltreumana, la naturale eleganza del segno e il notevole senso della composizione formale, ca stigati dal grido del colore che rivela a sua voltà insospettate armonie, mentre la tensione nega tiva del pensiero non si rovescia mai in catastro fe del segno artistico.
Con Ritter il paesaggio valtellinese perde il senso lirico che gli avevano conferito i pittori formatisi nella cerchia di „Corrente“ e che dall‘iniziale cubismo picassiano si erano orientati in seguito verso i fauves, Matisse e l‘espressionismo francese. Non c‘è più ombra di lirismo in questo disincan tato paesaggio chiavennasco di Ritter. Il suo espressionismo, se ha il proprio precedente cul turale immediato nell‘espressionismo nordico del Novecento, ha però le sue remote e coscienti ascendenze in Rubens e in Rembrandt. Profondamente rubensiana e la carne cromatica della gigantesca figura femminile che schiaccia il lago e il paese in basso e si metamorfizza in alto con le montagne. Ritter nella sua personale via informale reintroduce un forte senso del chia roscuro e dell‘ombra e in ciò consiste lo specifi co richiamo a Rembrandt.
La grande figura di donna con le cosce divarica te che domina il quadro ha valenze psicoanaliti che. Ritter, che è anche raffinatissimo scrittore in lingua tedesca (e difficilmente traducibile), ha fornito ermetici parallelismi letterari a questo archetipo femminile della sua iconografia: „Si piegano di nuovo sopra la terra / dappertutto culi di donna, bleu scuro...“ E ancora: „Quale impressione mi fai, o donna d‘ombra! come ti mostri lentamente. Improvvisamente sei qui. Semplicemente, commovente qui! Fino a una nauseante, nuda presenza, qui. Poi lentamente ti trasformi, guardi verso l‘interno dell‘occhio e vi ti seppellisci. Per sempre, sempre di nuovo, ogni anno, alla fine di novembre tu vieni. Ogni anno in febbraio ti dissolvi, là, dove ti sò. Sino al prossimo novembre... Ti aspetto!“ Il tema dell‘ombra, è noto, ha una sua storia nella letteratura tedesca dalla Storia meravigliosa di Peter Schlemil di Adalbert von Chamisso, alla Donna-ombra di Hofmannsthal. La grande ombra corrisponde, in Ritter, al mistero dell‘ambiguo rapporto dell‘uomo con la donna e con la terra, insomma all‘“odi et amo“.
Personaggi: Il pittore svizzero negli anni Settanta girò l’Europa in autostop prima di ritirarsi in Val Bregaglia
Bruno Ritter: da Kerouac ai monti Mercoledì, 10 settembre 1997 „Provincia di Lecco“ (Cultura e spettacoli)
Chi mi ha parlato per la prima volta del pittore Bruno Ritter è stato Andrea Vitali, qualche mese fa. La mia meraviglia nasceva da due constatazioni: che Andrea ne fosse tanto entusiasta e che lui, notoriamente incline a lasciare Bellano solo dietro pesanti minacce, si fosse spinto sino a Chiavenna dove si trova lo studio dell‘artista. Mi ero personal- mente fatto una „mia“ immagine di questo svizzero tedesco finito a dipingere le sue ossessioni dentro la Valchiavenna: poteva essere solo un orso scorbutico che sfogava sulla tela le maledizioni di un destino che l‘aveva costretto a condividere la sorte degli uomini. Invece mi sono dovuto ricredere. Bruno Ritter è un quarantaseienne simpatico ed estroverso calato completamente dentro quei colori che invadono con forza addirittura con violenza, le sue tele. Come accennato il suo studio si trova a Chiavenna, anzi nel cuore della cittadina, proprio dentro quel castello che ne è il simbolo. Ma ques- to è il punto d‘arrivo della parabola esistenziale ed artistica di Ritter, si deve partire da Zurigo per conoscere questo singolare pittore.
A Zurigo Ritter ha le prime esperienze artistiche sul filo di una vita ancora divisa tra il lavoro (grafico prima, insegnante poi) e la pittura. Essendo nato nel 1951 deve per forza fare i conti con quella beat generation che segna sicuramente la sua giovinezza. È sull‘onda, del fascino letterario ed esistenziale di „On the road“ di Jack Kerouac che gira mezza Eu- ropa in autostop o si acquatta nei locali non sempre rispettabilissimi di Zurigo a disegnare quasi di nas- costo le facce di quegli animali notturni che li popolavano. La svolta avviene nel 1982. „Avevo quattro soldi in tasca – ci dice ridendo – potevo vivere un mese in una grande città o un anno in montagna. Ho scelto la solitudine più completa, sono finito a Canete, in ValChiavenna, dove l‘amica d‘allora aveva una casa“. Canete è un paesino di quattro case che il sole d‘inverno dimentica, un taglio netto con Zurigo o Sciaffusa, la scelta radicale di chi vuole dedicarsi anima e corpo alla pittura. „Era una vita appartata in tutti i sensi, condividevo l‘isolamento di quei contadini, pochi, che ancora ci vivevano ed assistevo alla loro disperazione, alle loro fatiche, ai suicidi, a quel strappare la vita ad una montagna dura, sorda, quasi ingrata.
Nascono qui quei grandi quadri come „Colui che torna a casa“, o la „Testa/Montagna“ dove le cime di montagne severe, quasi in timorenti si confondono con figure umane ingobbite dalla fatica se non addirittura disperate. Un ciclo questo che trova il suo approdo in una monumentale opera intitolata „Un tema barocco“ ispirata a „Le radeau de la frégate la Méduse“ di Théodore Géricault. Qui il senso della catastrofe esplode in un groviglio di carni in bilico tra la morte e la vita di cui la zattera è l‘ultimo appiglio.
La pittura di Ritter si impasta di un groviglio inesplicabile tra colore e materia laddove emerge su tutto un uomo divorato dal desiderio di sopravvivere a se stesso . „L‘alpigiano – ci dice – non fa lo jodel perche prova gioia, ma perchè ha paura“. In questa secca battuta c‘è tutta la disperazione di quegli uomini che sono aggrappati alla loro montagna, che ne sono avvinti come all‘ultima zattera in mare aperto. Che poi la montagna ricambi questo cocciuto resistere è solo una speranza ed è qui che esplode la disperazione. Oggi Bruno Ritter non vive più a Canete. Si è sposato ed abita a Maloja in Svizzera, ad una ventina di minuti da Chiavenna dove tutti i giorni si reca nel suo studio.
Anche la sua pittura cerca nuovi spazi a conferma di una indipendenza e di una curiosità estetica che non hanno vincoli. Riempiono attualmente il suo atelier grandi tele di nature morte, di interni che riflettono una luce ed un colore che è proprio della felice ispirazione del loro autore. Testimonianza questa di quanto indovinata sia stata una scelta che l‘ha visto isolarsi da ogni contaminazione per seguire la propria strada. Ed oggi a Chiavenna alle porte di quel lago di Como che è a due passi da Milano e nel contempo sempre vicino a quella Svizzera che è la sua terra Ritter porta avanti il suo la voro di uomo di confine che lo accomuna a tanti altri artisti. Ricordo che Primo Levi sottoline- ando la sintonia con altri amici scrittori come Mario Rigoni Stern, Nuto Revelli e Fulvio Tomizza ne sottolineava entro le grandi differenze, l‘aspetto comune, quello di essere cioè scrittori di frontiera. „Rigoni Stern è cimbro e ci tiene molto, io sono ebreo. Nuto Revelli è occi tanico e Tomizza è istriano.
o credo – concludeva Primo Levi – sia importante di sporre di un‘esperienza molteplice; l‘italianotipo dispone in fondo di meno materie prime di noi periferici, vive meno contrad dizioni“.
Bruno Ritter sarebbe piaciuto a Testori, in tanti suoi quadri esplode un urlo che lo avvicina addirittura a Bacon, ma sarebbe inutile cercare somiglianze e parentele, la sua pittura ti prende perchè unica, an- darla a vedere in quel di Chiavenna è sicuramente esperienza proficua. Del resto un uomo che lascia i wurstel per i pizzoccheri dimostra gia di valere qualcosa.
Se il Lizun mi dice qualcosa? È la mia ‚‘grande ombra“, apparsami davanti agli occhi a 10 - 11 anni, quando rnia madre mi aveva mandato a Cavril a custodire le mucche. Li non c‘era più I‘lncanto del fondovalle che si gode da Coltura (sovrastata in più dal Piz Duan, grandioso), ma una parete lugubre e goffa. Una montagna assurda, sfasata, con un cocuzzolo ridicolo. Poi, via via cho trascorrevano i lunghissimi giorni dell’infanzia, incominciai a capire che era stato lui, il Lizun, ad incutermi timore e un senso profondo di nostalgia. Forse è per questo che ho ancora paura della montagna: perchè il Lizun mi aveva privato della „Heimat“, mi aveva esculso orizzonti, o meglio l‘orizzonte abituale, a ovest. Ora, dal giorno che mia figlia, ancora piccolina, mi ha mostrato il Lizun come un enorme seno con tanto di capezzolo („grande tetta“?) credo che il Lizun non mi dica più niente. Ma non può essere così, perchè ci sono cento Lizun ritratti da un amico...
L’ho incontrato per la prima volta nella chiesa riformata di Maloja. Era seduto con Maja in prima fila. Me lo presentò lei con quell’argento vivo addosso e i capelli ricciuti, a cespuglio È il mio amico di Sciaffusa. Il giovane lungo e dinoccolato era Bruno Ritter. Dopo la Scuola d’Arte di Zurigo era stato per qualche anno insegnante di disegno in un liceo, poi, di punto in bianco, avevano preso la decisione di cambiare, di venire in zona . Tutte queste informazioni Maja me le comunicò prima che iniziasse il concerto. Non mi ricordo che tipo di musica, ero troppo preso dal „venire in zona“, cioè qui, ma dove?
Da quel lontano 1982 Bruno ha cominciato a marcare la sua presenza „in zona“, stabilendosi a Canete (Italia) nella casa dei genitori dell’amica a pochi chilometri dalla frontiera svizzera di Castasegna. Prima conoscevo il paesino –addirittura suddiviso in Canete di Sopra e Canete di Sotto- solo intravedendolo dalla strada principale per Chiavenna. Con Bruno e Maja divenne un luogo, una meta di pellegrinaggio, in fondo non tanto per vedere cosa facesse, ma più per capire la scelta di stabilirsi da noi, in una valle incassata fra le montagne, nelle grandi ombre invernali che si avvertono già verso la fine di agosto. La montagna e la grande ombra continuano ad assillarlo anche al presente, una specie di attrazione-ripulsione nei confronti dell’abisso. Se non alla lettera sono esternazioni che ho sentito o piuttosto intuito direttamente da lui. I suoi critici affermano spesso che una delle principali fonti delle sue ispirazioni risiedano proprio in questo. Chissà.
E dal tempo di Canete la sua innata gentilezza, la sua signorilità e la sua modestia sarebbero rimaste intatte. Sopportava pure i miei bambini che spesso portavo con me. Lui non si infastidiva mai, smetteva il suo lavoro e si beveva vino, mescendo da un bottiglione che una volta vuoto mostrava un vetro rosso- viola, come le nostre labbra, la lingua e perfino i denti, quando si eccedeva.
Su una curva prima di raggiungere Canete, una sera Bruno si era rifugiato sotto un castagno per ripararsi dalla pioggia. Poco dopo avere ripreso il cammino dietro di lui aveva sentito un „casino“ (una parola che nel suo primo italiano ricorreva spesso). Un fulmine si era schiantato sull’albero sotto al quale si era soffermato poco prima.
E la scena per il concorso di pittura fra castagni secolari: Bruno con due colleghi pittori nelle brume del mese di novembre a dipingere scorci di Canete.
L’uomo venuto dal nord, dalla città, da un paesaggio di colline, più che continuare a stupirmi mi affascinava, forse anche perché inconsciamente gli ero infinitamente grato che continuava a restare, così che il mio istinto di evadere, il „fernweh“ si attutiva. Lui mi mostrava sempre cosa stesse facendo. Sì, m’interessava, era però la sua incredibile versatilità artistica a suscitare in me stupore e ammirazione: pittore (olio, acquarello, pastello, matita, inchiostro, tempera), incisore, ritrattista, fumettista, illustratore di libri.
Anche se gli spazi erano quelli che erano, e non solo a Canete, riusciva sempre a trovare un posto, magari anche lontano, per sistemare la stamperia. C’era inoltre quella sua ineffabile modestia, come il confrontarsi con le tecniche più diverse fosse la cosa più scontata. Solo più tardi avrei capito che questo suo atteggiamento derivava dal lavoro assiduo, tenace e passionale che continua ad essere una componente di Bruno. Credo di potere affermare che ha scelto di affidarsi al lavoro, fregandosene dell’ispirazione. Una scelta non di accanimento, piuttosto di dedizione regolare e continua a tutte le sue creazioni. Cosa hai fatto? Che stai facendo? Che intenzioni hai? La risposta è immancabilmente: lavoro...
Con il tempo sono poi stato gradualmente attratto da tante sue opere: dai quadri ai disegni, dalle incisioni ai fumetti, ecc. però francamente è sempre lui, l’uomo venuto dal nord a colpirmi più nel profondo. Sono convinto che il „radiologo“ -si manifesta soprattutto nei ritratti- sappia di questo mio modo di comportarsi. Una volta in un’intervista ha detto che ero un tipo difficile.
Sono il padrino di Sara, la figlia di Bruno e di Esther. Prima la famiglia viveva a Maloja in un appartamento al secondo piano della casa „al larasch“, nome questo che Bruno pronunciava tra il beffardo e il divertito, probabilmente associando i suoni all’asperità del paesaggio bregagliotto che lui ha percorso per anni, da pendolare all’inverso, Maloja-Chiavenna e viceversa. Ora Sara, Esther e Bruno abitano a Borgonovo (Svizzera).
Dall’Engadina al lago di Como, da Samedan a Bellano, Bruno ha lasciato dei segni con le sue mostre e i suoi atelier e non per ultimo con la sua presenza. A Chiavenna conosce tutti e tutti sanno chi è l’uomo venuto dal nord. Gli ho chiesto una lista, non delle opere e nemmeno delle mostre, ma degli atelier in cui ha lavorato. Ecco la risposta: 1. A Canete: l’avevo in una stüa a Canete di Sotto; 2. A Villa: di fronte al negozio d’alimentari, sulla curva, con stamperia dai Moro a Borgonuovo; 3. A Santa Croce (1986-1994) e stamperia a Chiavenna, via Spluga; 4. Nell’Albergo Bregaglia, 1991/92; 5. A Chiavenna, in una casetta bellissima...via Vanossi, con stamperia in cantina; dal 1994 a Piazza Castello, con stamperia. A proposito dei tanti „casino“ Bruno parla l’italiano e capisce il dialetto: mi piace ricordare Bruno che accompagnadosi con il banjo cantava in una cerchia di amici: Marina Marina Marina...(non ricordo)... ti voglio... (non ricordo)... sposar... (non ricordo)... oh mia bella mora... (non ricordo)... no non mi... (non ricordo)... non mi devi lololare oh no, no, no, no, no. Erano tanti anni fa, ai tempi di Canete.
Sette „Sonetti lussuriosi di Pietro Aretino“ con incisioni del pittore svizzero Bruno Ritter e composizioni musicali per liuto del chitarrista italiano Gabriele Palomba.
Pare che fosse figlio di una prostituta e di un calzolaio di Arezzo. Questo è perlomeno quanto, in tono laconico o con una compiaciuta punta di sarcasmo, si è scritto su Pietro Aretino (1452-1556), una delle più brillanti e controverse figure del Cinquecento. Se i suoi natali restano incerti, certo è comunque che egli fu un talento eccezionale, ammirato e nel contempo esecrato, nobilitato e bandito alla sua epoca. Le origini di Bruno Ritter risalgono invece alla media borghesia della Svizzera orientale. Nato nel 1951 a Sciaffusa, egli possiede una solida formazione in diversi settori dell‘arte grafica ed è stato per un certo periodo insegnante di disegno. Numerose mostre hanno testimoniato il suo cammino verso la pittura: una evoluzione continua, seppure incrinata da tensioni. Nelle sue opere degli ultimi anni, pittura e disegno sono associati con grande perizia tecnica e si compenetrano in libera creatività. Lo si potrebbe dire un classico: con i maestri della pittura, Ritter condivide il segno della matita, l‘impasto della paletta, il fascino dell‘eros e l‘autonomia spirituale. E l‘autonomia è anche il tratto che accomuna Ritter all‘Aretino: entrambi rifiutano l‘assuefazione borghese e il servilismo autoritario, come rifuggono da una serietà senza ironia e da un formalismo senza contenuto. Seguendo il suo impulso a rendersi intimamente libero, Ritter si è stabilito da anni nell‘appartata Valchiavenna. Anche se ora abita a Maloja (CH), il suo studio rimane fra le mura austere del vecchio castello di Chiavenna.
Agli amanti dell‘arte, Bruno Ritter propone un insieme tripartito con 7 Sonetti lussuriosi di Pietro Aretino. Si tratta di un album dal comodo formato di 33 x 16 cm, accuratamente rilegato in cartone con costola e angoli rinforzati, che contiene sette fogli con incisioni erotiche a fianco di altrettanti sonetti, scelti dall‘artista stesso. Ad ogni foglio s‘accompagnano, stampate su carta pergamena, le musiche che Gabriele Palomba ha composto per i sonetti. L‘esecuzione musicale, registrata sull‘acclusa cassetta, è stata realizzata dalla soprano italiana Ginevra (Manuela Galli), accompagnata dal compositore. Palomba si rifà all‘ideale musicale del Rinascimento e usa la tecnica manierista di un sapiente diminuito. Anche la cantante si attiene ad un‘interpretazione d‘epoca, con una voce scarsa di vibrazioni, rattenuta e spesso sincopata.
L‘elemento musicale, forse un po‘ freddino ma raffinato, sta ai testi ed alle incisioni come una sorellina minore alle maggiori. Ma i sonetti stessi, entro le severe norme metriche di rime e ritmo, traboccano di musicalità. L‘Aretino varia e arricchisce lo scarso vocabolario della sessualità con spunti arguti e sfrontati, attento alla fisiologia degli amanti. Per questo ancor oggi alcuni gli riconoscono il merito artistico, altri l‘accusano di oscenità.
Con i Sedici Sonetti, „la frusta dei principi, Il divino Pietro Aretino“, come il contemporaneo Ariosto lo chiama (Orlando furioso, XLVI, 15), l‘autore si attirò il discredito di certi ambienti, la lode di altri. L‘indignazione maggiore venne dal Vaticano, malgrado questo fosse, all‘epoca dell‘autore, tutt‘altro che incline alla castità e al pudore. Ma alcuni eminenti ecclesiastici, come per esempio il papa Clemente VII (Giulio de‘ Medici), attestarono la loro benevolenza al „poeta satirico per grazia divina“ con comprensione, simpatia e danaro. La cerchia dei suoi amici non era meno impressionante di quella dei suoi nemici. Per il Sansovino egli posò come modello per un evangelista, Michelangelo lo inserì quale san Bartolomeo nel suo Giudizio universale della Sistina, Tintoretto e Sebastiano del Piombo gli fecero il ritratto, come pure Tiziano, legato a lui da profonda amicizia. Scrittori come Rabelais, Shakespeare e Molière lo consideravano un maestro. Principi e nobildonne lo venerarono, come le cortigiane che lui sosteneva con generosità. Il poeta satirico che „flagellava“ il costume era temuto soprattutto dal clero e da quanti si ritenevano apostoli della morale.
I contestati sonetti s‘ispirano ad un ciclo di incisioni che Marcantonio Raimondi tirò dai disegni dei „diversi modi, attitudini e positure“ degli amanti di Giulio Romano, il pittore che portò a compimento l‘opera di Raffaello in Vaticano. I disegni e le incisioni originali sono andati persi da tempo. Con le incisioni stampate a Roma nel 1524, Raimondi fece un ottimo affare, ma lo pagò con la prigione. L‘autore dei disegni, Giulio Romano, si trasferì prudentemente a Mantova, dove attese in tutta tranquillità alla costruzione di Palazzo Tè. L‘Aretino venne a conoscenza dei famigerati disegni soltanto quando intercedette presso il papa Clemente VIII per la liberazione di Raimondi. In una lettera a messer Battista Zatti, egli riferisce così il fatto:
„Da poi ch‘io ottenni da papa Clemente la libertà di Marcantonio Bolognese, il quale era in prigione per aver intagliato in rame i Sedici modi, ecc., mi venne volontà di vedere le figure, cagione che le querele gibertine esclamavano che il buon vertuoso si crucifiggessi; e vistole fui tocco da lo spirito che mosse Giulio Romano a disegnarle. E perché i poeti e gli scultori antichi e moderni sogliono scrivere e scolpire alcuna volta per trastullo de l‘ingegno cose lascive, come nel palazzo Chisio fa fede il satiro di marmo che tenta di violare un fanciullo, ci sciorinai sopra i sonetti che ci si veggono a i piedi. La cui lussuriosa memoria vi intitolo con pace de gli ipocriti, disparandomi del giudicio ladro e de la consuetudine porca che proibisce a gli occhi quel che più gli diletta.“ (Venezia, 11 dicembre 1537).
Non è un caso che i sonetti e la loro storia abbiano affascinato Bruno Ritter, un artista che pone la figura umana al centro della sua ricerca: quasi un‘infatuazione primordiale che egli cerca di esorcizzare mediante la figurazione e che s‘accende davanti ad ogni nuova tela. Nascono così i suoi personaggi; il loro rapporto con l‘ambiente è spesso teso, alle volte allegorico, come quando essi si fondono con la montagna. Leggermente mosse nell‘elegante linea del disegno, le figure impongono con forza la loro presenza.
Aiutato da amici italiani, Bruno Ritter si è avvicinato al testo tramite una vecchia versione, di discussa autenticità. Dice di avere scarsa conoscenza del vocabolario sessuale nel suo dialetto tedesco, ma che in italiano tutto suona certamente meglio all‘orecchio. Certo è che l‘Aretino ha trovato in lui un interprete sensibile, teso nell‘espressione e levigato nel segno. Può tuttavia accadere che un‘opera raffinata cada sotto la censura, anche in tempi di dilagante e sfrontata pornografia; che il nudo dell‘artista desti più sospetti che le falsificazioni in grande formato, divulgate dalla pubblicità. A questo vuole sfuggire il piccolo insieme poetico-grafico-musicale di Bruno Ritter.
Caro Bruno, dopo tanto tempo ripercorro la strada che conduce quassù, fra le montagne. Una strada, lo sai, di cui conosco ogni pietra, ogni scorcio, e che pure mi riserva, ogni volta, qualche dettaglio inedito, qualche angolo stupefacente.
Per alcuni anni ho seguito il tuo lavoro da lontano, dall’altra parte del mondo. E adesso, qui nel tuo studio arroccato nel Castello di Chiavenna, mi sorprendi e mi confronti con un pezzo di autobiografia e con una “summa” del tuo fare pittura. Mi sento quasi un voyeur davanti a questa sintesi dinamica di esperienze personali, di personali sensazioni e sentimenti intimi, di ricerche pittoriche già plasmate da una sofferta maturità. Ma al tempo stesso mi sento a casa, anche. Di nuovo sulla strada, nel ritorno, lascio decantare le impressioni per poter dar loro forma sulla pagina.
Dipingere un quadro. Scrivere una poesia. Oppure: dipingere una poesia e scrivere un quadro. Non è forse inevitabile questo slittamento dei termini – tipico degli artisti estremo-orientali - di fronte alle tue opere recentissime e, in particolare, di fronte a questo tuo gruppo dedicato alla nascita, alla vita e alla morte?
Ci troviamo qui su un versante nuovo, eppure non ignoto né inatteso, della tua pittura. Qualche cosa doveva succedere dopo Un tema barocco, il ciclo di dipinti del 1996 ispirato a Le radeau de la frégate La Méduse di Théodore Géricault. Un ciclo che aveva sfiorato un limite, aveva raggiunto – per restare nell’ambito metaforico della montagna, della tua Bregaglia - come una sommità, un crinale, e spingeva a guardare giù, sull’altro versante, appunto.
Il cammino è continuato. Ti sei per così dire sgravato della figura e ti sei addentrato nel territorio della forma-non forma, di un’astrazione che non smette di suggerire, di alludere, di lasciar intuire. Uno scivolare della macchia nel segno, della pennellata nella grafia, della superficie nella massa, del vuoto nel pieno. Giocando – comunque e sempre – con un andare e tornare alla carne, alla terra.
Nascita – Vita – Morte è senza dubbio l’esito più importante da quel punto di svolta. Non a caso l’incarico di dipingere quest’opera – una tematica così assoluta, così impegnativa - giunge ora, in un momento che tu stesso avverti come “naturale” a questo punto della tua vicenda di individuo e dentro l’epoca che stai vivendo. È come se ad un tratto gli anni e gli eventi premessero per confluirvi. Il lavoro a questo ciclo – o meglio, il corpo a corpo con esso - diventa subito ineluttabile, diventa destino, diventa necessario.
Sì, perchè questa è un’opera su commissione, un’opera commissionata su un tema preciso per uno spazio preciso: la nascita, la vita e la morte devono essere “messe in scena” in una grande sala dai soffitti altissimi nella residenza privata di un mecenate di Ftan. È la prima volta per te, un punto di partenza anomalo, e mi racconti la storia con non celata, ansiosa eccitazione.
Mi parli del senso di sfida, innanzitutto. Lo sforzo di trasformare una commissione in un lavoro tuo. La fatica di concepire l’idea di un altro e di appropriartene, per diventare, infine, quasi committente di te stesso.
Poi della paura. La paura sacrosanta di non riuscire a fare tabula rasa di modelli pressanti, di non poterti sciogliere dal peso di Segantini, di non poter sfuggire alle atmosfere di Maloja. Pensi già di essere in trappola, e invece, all’improvviso, ecco che sorge fortissimo il bisogno di “espellere” e di organizzare il flusso autobiografico, di sommare e di sintetizzare l’esperienza pittorica. L’opera – la tua opera - chiede di farsi. Il resto sbiadisce sullo sfondo. La strada si apre.
Il tuo primo pensiero è l’acquarello. Un pensiero temerario, che mi incanta. Una sfida nella sfida, una provocazione alla stessa forma espressiva, alla materia e al materiale. Forse, per questi temi senza tempo, aneli a una pittura aerea, sottile, contemplativa, quasi zen, che riecheggi le delicate prospettive atmosferiche di tanti dipinti cinesi e giapponesi (in altro modo, già le Cento vedute del Piz Lizun del 1998 non rivelano forse un’assonanza con le Cento vedute del Monte Fuji di Hokusai del 1834?).
L’idea dell’acquarello, così intrigante sul piano sperimentale, viene scartata. Lo capisco. Ma questo aspetto meditativo orientaleggiante non smette di imporsi, pervade a diversi livelli le tue creazioni recenti e permea questo intero gruppo, sottinteso com’è da un gesto che è quasi ideogramma, da un vuoto che è elemento portante e spazio di raffinate velature, e da cui le forme, le masse paiono scaturire come evocate dalla forza stessa della meditazione. E poi c’è il libro. Questo libro. Un manoscritto, imperniato dunque sul segno, sul gesto, sulla calligrafia. Pagine come fogli di album, in cui pittura e grafia si sovrappongono in un lirismo estetico senza sbavature ma senza compiacimento, pagine che davvero non sai se siano scritto o quadro, o tutt’e due. Sarà un caso, questo tuo ammiccare all’oriente, o sarà un segno dell’epoca? (Penso a certe tele di Laura Owens, penso ai lavori del bahamiano John Cox, per indulgere anche in una mia realtà). Scrivi un quadro. Dipingi una poesia.
Cos’è allora quest’opera, di che cosa è fatta? Tutto è nuovo, eppure ritrovo subito le tue poetiche. Ritrovo quel tuo lavorare sui contrasti, sulle frizioni, Bruno Ritter | Kritische Texte sulle ambiguità sottili, sulle tensioni. Ritrovo, quasi, la donna-roccia, la pecora che si abbandona voluttuosamente al precipizio, la scabrosità delle carni come di granito, la rivolta delle masse in movimento.
Sono qui. Davanti a me le tele, tre tele che sono quasi un trittico. Quasi. Un libro che è quasi oggetto d’arte. Quasi. E tutto questo fuso in un’opera che è quasi installazione. Quasi. Posti uno accanto all’altro nel tuo studio, in questo spazio che è anche proiezione di un tuo spazio mentale, in questi giorni da apocalisse, i quattro elementi dialogano e si intrattengono come in una danza. Una danza ora quasi matissiana, da Joie de vivre, ma che subito dopo par mutarsi, anche, in una sorta di convulsa Totentanz.
Tre tasselli, tre formati diversi, tre tappe esistenziali (iconografiche e psicologiche) che funzionano - devono funzionare - simultaneamente come elementi singoli e come trittico.
Come già in Un tema barocco, anche qui le tre tele, leggibili singolarmente, stanno in strettissimo rapporto tra loro. Un movimento curvo, a parabola, le collega e le racchiude in un unico ritmo, un’unica frase musicale. All’interno di questa, o sotto, ci sono i rumori: diversi, peculiari a ciascuno dei tre brani. Fruscii, suoni di sottofondo, uno strusciare di scarpe, rumore di forbici e rumori attutiti, suoni stridenti in aspro contrasto, voci soffocate, brusii. Una cosa che, mi dici, vuole alludere ai rumori di un monastero solo apparentemente immerso nel silenzio, e che ti viene ispirata da un’opera di Beat Furrer, Die Blinden, una studiata, sperimentale cacofonia con testi di Neruda e di vari poeti. Non ricerca di armonia, bensì contrasti simultanei, esprimersi di tensioni. Il bisogno di spiritualità assediato da un mondo convulso. Colore, materia e velatura, piani definiti e piani indefiniti, movimento e quiete, spontaneità del segno e gesto trattenuto. E poi gli aspetti tattili, dal liscio al ruvido, dal duro al soffice.
La pennellata, il duktus, si fa vero mezzo di espressione del dramma proprio a ogni esistenza umana. Piccoli terremoti, vibrazioni telluriche, instabilità, cadute, direzioni che si interrompono, che cambiano repentinamente dando origine a giochi di forze e controforze: il bambino che preme verso il basso, la madre che lo spinge e lo trattiene, la vita che si innalza come un canto ma al tempo stesso par franare adagio adagio, la morte che conduce alla terra e insieme solleva verso l’alto, verso una dimensione eterea.
La genesi stessa delle opere è riconoscibile anatomicamente in tutte le sue tappe, in tutto il suo travaglio, dalla preparazione alle incrostazioni materiche. Il bianco – clinico, ospedaliero. Bianco su bianco in velature trasparenti, bianco come vuoto, poi bianco come colore, bianco come materia (non luce!), bianco che sembra davvero dare origine a tutte le cose e contenere tutte le tinte. Come se i rapporti cromatici di rosso e verde, di giallo, azzurro e violetto, le forme, le masse, i gesti non scaturissero che dal bianco (e che mi dici dell’importanza del vuoto nella pittura orientale, o del significato del bianco come colore funebre?). Un pensiero corre anche a Robert Ryman, ma è solo un attimo. Il tema del bianco, per te, non ha nulla di concettuale, nulla di minimal. La sua valenza è puramente esistenziale.
Dal bianco esplode la nuova energia, nascono le non-forme sfilacciate e aperte che poi, in parabola discendente, si concentrano infine in un grumo terroso, nella forma chiusa, scura e compatta del terzo dipinto. L’energia implode, ritorna all’uovo cosmico.
La Nascita organizza un equilibrio (precario) fra movimento verticale e movimento orizzontale. Ma ciò che più colpisce è quell’andare e venire, quel dentro e fuori, quel passaggio dal bidimensionale al tridimensionale attraverso il combinarsi di piani e di masse, così tipico della tua intera parabola creativa ma condotto, qui, a soluzioni estreme. È come l’andare e venire delle doglie, mi dici, ma è anche come un moto di risucchio, e poi contemplo la pancia che si svuota, i liquidi, riconosco la sensazione di bagnato, di viscido. Quando la luce radente si posa sulla superficie della tela quasi mi pare che il quadro sudi, o pianga: la materia si manifesta in sottili corrugamenti, come fini rivoli di sudore nella fatica del partorire e del nascere.
La Vita è un fotogramma alto e stretto, che in una composizione quasi alla Sam Francis sintetizza tutta l’essenza dell’esistere, la leggerezza e la pesantezza, il salire e il cadere, l’ilare e il drammatico. La tragedia e la commedia.
La Morte è una figura vagamente antropomorfa, una forma chiusa, dicevo, compatta. È una sensazione di humus, di terra umida. È una sensazione come di marcescenza e insieme di sublimazione. È un valore cromatico tutto giocato sulla stessa tonalità, con contrasti di opaco e di lucido. È un movimento fine, quasi un tremito, fatto di rilievi sottilissimi che paiono i corrugamenti di un tappeto sul pavimento (sì, lo vedo il tappetaccio del tuo studio, grigio, incrostato e polveroso, ma non hai forse pensato – non dirmi di no – anche ai corrugamenti della crosta terrestre – le montagne?).
Poi il libro. Un libro sulle opere, un libro con le opere, un libro opera. Perché questo bisogno? Perché la necessità di accompagnare le tele con una sorta di diario, con un codice che, paradossalmente, le decodifichi?
È chiaro che lo scivolamento nell’astrazione non è stato – e non è – indolore per un artista come te, legato come sei alla carne, alla roccia, alla figura come veicolo di espressione enigmatico e privilegiato. Ecco allora che il libro mi pare ribadire un contatto con il reale, diventa segno tangibile di realismo, quasi un terreno su cui puoi poggiare il piede per spiccare il salto. Libro come “dato reale” da cui le tele prendono avvio, di cui le tele si zavorrano e a cui le tele tornano in continui rimandi speculari.
Al tempo stesso, il libro incarna la necessità, altrettanto impellente, di lasciare traccia del processo creativo e delle configurazioni emotive e psicologiche da cui le tele sono scaturite. Un meccanismo che facilmente può apparire concettuale, ma che una più attenta riflessione (o una più approfondita conoscenza di te, della tua opera) rivela soprattutto viscerale. L’epoca sconvolgente e violenta che stiamo vivendo si riflette pesantemente sul nostro stato d’animo. Il senso di debolezza, di incertezza, di precarietà, già caratteristico della tua intera poetica, emerge in tutta la sua intensità e si coagula nel concetto di momento (e senz’altro, insieme, di memento). È l’idea di hic et nunc, dell’esserci ora e adesso, e fra un istante non più. Nel mondo sconvolto che ci circonda, la percezione del tempo si trasforma, il flusso costante si assottiglia, si secca, e lascia emergere null’altro che l’attimo. La realtà, le cose, lo stesso atto creativo si svuotano di significato e mi dici che è con grande sforzo che tu - l’artista – tenti di ridare un senso a te stesso e alla quotidianità. È da questa battaglia per un recupero del reale; per uscire dal grembo dello studio, che hai voluto con grande efficacia definire una placenta artificiale e protettiva; per poter assaporare un pranzo in un ristorantino di Chiavenna, gustare un bicchiere di vino, una sigaretta, una chiacchierata tra amici; per poter entrare nel caldo e nel fumo di un bar e lanciare un saluto al vecchio seduto al solito tavolo; è perché tutto questo possa tornare ad essere un valore che ti diviene improvvisamente importante “fare” il libro, affiancarlo alle tele, e lasciare che ne racconti a parole la complessa genesi così come i dipinti la raccontano segno dopo segno, incrostazione dopo incrostazione. Per dare voce alla fatica, al disagio, alla disperazione, all’incredulità, alle piccole vittorie, ai momenti più forti.
Naturalmente ci sono cose esprimibili solo nel quadro. Troppo difficili da verbalizzare. Ne consegue che il rapporto fra libro e tele è un rapporto di continuità, di specularità, ma al tempo stesso di tensione. In particolare di quella tensione che da sempre ti è cara (già dai tempi della donna-montagna): la tensione fra reale e astratto, fra figura e non-forma, fra dicibile e indicibile.
E poi che altro?
Lo spazio. Lo spazio è pre-esistente, è condizione data. È lo spazio che chiama l’opera, che la chiede, e che infine ne diventa elemento costitutivo. L’opera deve dargli un senso, e riceverne un senso, deve proiettarsi in esso e insieme introiettarlo, deve dialogare con esso, sopportare e affermare un suo rapporto dialettico con esso. Poi la luce. La luce che si modifica e modifica a sua volta lo spazio, lo plasma, dà vita alle tele in esso incastonate. La luce dello studio e la luce della sala di Ftan. Luce primaverile, luce autunnale, luce invernale, luce di mezzogiorno, luce del crepuscolo, luce calda di sole e luce bagnata di pioggia e di neve. Luce nota e luce che si può soltanto immaginare. Per ogni sfaccettatura luminosa nuovi giochi espressivi e nuove vibrazioni.
Cosa ne sarà, ora, di queste opere? Cosa accadrà quando anch’esse lasceranno il grembo familiare e protetto dell’atelier per entrare nello spazio a loro pre-destinato? Quale dialogo fra loro innescheranno? E con lo spazio stesso? E con la luce - sempre diversa a ogni ora del giorno (e della notte, e dell’anno)? Quali corde toccheranno in coloro che sosteranno a contemplarle o le frequenteranno giorno dopo giorno?
Domande alle quali tu forse puoi già dare risposta, ora che hai accompagnato i tuoi dipinti in quella loro dimora così particolare, li hai lasciati andare e li hai guardati volare in alto, su quelle vertiginose pareti per le quali li hai creati. Per me invece, mentre ti scrivo, sono domande ancora aperte. La curiosità è grande. Già adesso, però, so che questi quadri sono quadri in movimento, percepisco la loro vita interna fatta di luci, di ombre, di punti di osservazione sempre diversi. So che sono quadri vivi, che l’ambiente circostante plasmerà senza sosta così come plasma un volto.
„Quell‘uomo grida in cuor suo: ‚Io non domando per me nessun aiuto‘;quell‘uomo sa che la bilancia del riscatto chiede il sacrificio di tutta la sua vita e forse anche di tutte le sue speranze. Ma non vorrebbe morire, ecco tutto. Non morire“.
Leonardo Sinisgalli, Intorno alla figura del poeta
„[...]. Il confine fra autosoddisfazione e catastrofe è molto sottile“.
Elisabeth Dowdeswell, Direttrice esecutiva dell‘ Organizzazione ONU per l‘ Ambiente,"Tages Anzeiger", 18.11.1993 1
"Ein barockes Thema". Un tema barocco. E‘ così che Bruno Ritter intitola il suo monumentale ciclo di dipinti ispirato a Le radeau de la Méduse di Théodore Géricault. Un ciclo che si incastona dentro il suo percorso pittorico come un evento dalle vaste, complesse implicazioni, come autentica summa. Bruno Ritter si confronta – e ci confronta – con la catastrofe, le dà voce: è il disperato contorcersi e avvilupparsi dei corpi lividi, già putrescenti, ad avvincerlo; sono le membra contratte o tese in ultimi, tardivi spasimi di angoscia, sono i visi alterati dagli urli e resi infernali dalla luce acida, da ecatombe, ad intrigarlo. Già da tempo Bruno Ritter sente queste figure agitarglisi dentro, affollarsi disordinate alla sua mente, premere per trovare una via d‘uscita.
Già da tempo esse lo accompagnano nel quotidiano procedere, facendosi vieppiù echi del mondo, presenze necessarie che anelano a una forma. E quando, nel 1994, la rivista „du“ dedica il numero di febbraio proprio a questo argomento, alla catastrofe, ecco che il capolavoro di Géricault diventa destino, specchio, miccia. E‘ il momento, il silenzio si rompe.
Al centro una tela, un mare in burrasca che scuote un‘imbarcazione – la zattera – su cui tre figure si tengono in equilibrio. In alto, sullo sfondo, il segno forse di una nave lontana (o di un miraggio? E sarà la salvezza, poi?). Ai lati quindici pannelli alti, stretti, nei quali quindici corpi (quindici sono i sopravvissuti allo storico naufragio della Méduse) sono schiacciati in pose faticose, come colti nell‘attimo della sciagura o di una terribile battaglia, poveri grumi di carne pervasi da un potente, inconsolabile desiderio di vita. E poi due grandi teleri (uno dei quali diviso verticalmente da una giuntura centrale), in cui l‘ammassarsi delle membra par quasi riecheggiare il gorgo dei flutti; spicca nel primo (I) una verdastra, goyesca testa urlante dalla bocca nera spalancata in un afono grido – l‘urlo di Munch –, accento di altissima tragedia. Infine, ecco quindici ritratti, quindici volti in procinto di dissolversi in un nulla materico, in un ritorno al magma informe, e che pure combattono per non rinunciare al proprio esistere, mossi dall‘instancabile ansia di sopravvivere, vivere.
Non è nuovo, Bruno Ritter, al tema della catastrofe. Vi è, anzi, legato da lunga familiarità: essa è per lui Leit-motiv a un tempo pittorico ed esistenziale. Sin da quel momento-chiave che è La grande ombra (1990), il disastro è lì: incombe alluso dalla mano adunca della donna-montagna che in un attimo inatteso può ghermire il villaggio; lo evocano le successive figure in caduta, le tristi pecore che si abbandonano, quasi, alle nebbie soporifere del precipizio, i dormienti immersi nel „grande sonno“. E non potrebbe essere altrimenti per colui che ha scelto di vivere fra le aspre architetture di roccia e di fango della Valchiavenna, fra quei dirupi che nel 1618 franarono seppellendo le case di Piuro, risucchiandole nei visceri della terra; quelle montagne che ad ogni nevicata, ad ogni pioggia, ad ogni temporale estivo fanno alzare gli occhi con timore soffuso, con silenziosa preghiera, nella speranza di poter un giorno infrangere il cerchio del perpetuo crollare e ricostruire, crollare e ricostruire.
Un senso di costrizione intride tutto il percorso pittorico di Bruno Ritter e trova, qui, un suo monumento. E‘ il concetto - tipicamente elvetico - di strettoia, di Enge (per dirla con Paul Nizon, autore di un memorabile saggio che già mi è piaciuto citare in altra occasione a proposito di Ritter2 -. E‘ infatti in una Enge che Ritter cresce come uomo e come artista: nella Enge geografica di una Svizzera sempre più chiusa su se stessa; nella Enge fisica di una valle stretta e incassata che annulla l‘orizzonte; nella Enge psichica di un isolamento cercato ma sofferto. È con questa triplice costrizione che egli ha da sempre scelto di confrontarsi ed è da qui che scaturisce quella tensione da cui trae linfa il suo impulso creativo. La pittura di Ritter esprime un universo di solitudini e di melma, di spazi asfittici tradotti in pennellate materiche, quasi di sostanza geologica; formati di vertiginosa verticalità (siamo nella valle di Giacometti!) bloccano il movimento delle figure, le sigillano in silenzi inscalfibili, costringono talvolta in uno spezzato ossessivo.
Un concetto, quello di Enge, leggibile anche qui sul piano iconografico come su quello formale e strutturale. Non vi è infatti soluzione di continuità fra il motivo della Zattera come spazio minimo in cui non è possibile espandersi, respirare, crescere, in senso lato evolvere, e i temi, cari a Ritter, della montagna che sovrasta o della Badewanne fra le cui gelide pareti smaltate i corpi si torcono in posture da incubo. Montagna e zattera sono i due volti di una stessa strettoia, di una stessa minaccia, di una stessa tragedia; la lotta per sopravvivere può stemperarsi in follia autodistruttrice; l‘aspirazione alle vette può diventare fatale desiderio di abbandonarsi all‘abisso (e ben ce lo rammentano i drammatici ritratti di suicidi eseguiti da Ritter qualche anno fa, suicidi che si lasciano annegare nelle acque limacciose di un lago artificiale di montagna, quasi a tornare all‘oblio di un grembo).
E davvero la montagna è, in questo ciclo della Zattera, sempre paradossalmente presente: è la forma aguzza che par sottendere una cima innevata alta sopra il capo di uno dei sopravvissuti (Nr. III.8), come a ribadire una condanna; è l‘ammasso dei corpi che invadono la tela fino al limite superiore, impedendo allo sguardo di perdersi in lontananza; è il diffuso tema del mare inteso come materia oscura, opaca, impenetrabile, pesante; è il contorcersi delle figure che, come già nella serie delle donne-montagna, delle donne-ombra, paiono mutarsi in rocce antropomorfe, in aspri scogli che emergono dalle acque buie; è il colore della fanghiglia, del muschio e del granito; sono i formati da vertigine, veri emblemi dello spazio valchiavennasco.
Una poetica già propriamente ritteriana, dunque, che viene adesso ampliandosi, in un afflato universale, fino a fare del mondo stesso una Enge. È il mondo trasformato in villaggio globale, il mondo impoverito e omogeneizzato dei mass-media, percorso da asettiche autostrade informatiche, un mondo microcosmico in cui si scatenano i peggiori conflitti, in cui il singolo (singolo individuo, singola cultura) crede di poter sopravvivere solo annientando con forza barbara il diverso. Ed eccoli, allora, i volti dei sopravvissuti a questa insensata battaglia, i nostri volti: iterati volti in disgregazione, dai lineamenti incerti, impuri, sfaldati in materia primordiale, ridotti, si può dire, a elementi seriali di una composizione più ampia il cui disegno sfugge loro completamente.
Ritter fa proprio il dramma di una condizione umana che pone costantemente e spietatamente l‘uomo solo di fronte all‘ignoto, all‘ineffabile, all‘enigma, al limite stesso della propria ragione e del proprio essere (il monolite nero di Stanley Kubrick in 2001 odissea nello spazio, arcano e incomprensibile per la scimmia preistorica come per l‘astronauta del XXI secolo). Lo fa proprio, Ritter, e lo esplicita scegliendo „Ein barockes Thema“. E si capisce. Sì, perché la Zattera di Géricault rappresenta forse il punto culminante di un lungo percorso, un percorso che prende avvio nel barocco nero, vorticoso, il barocco che fuoriesce dal limpido rinascimento come un‘escrescenza oscura, sfondandone i confini, le prospettive, le regole con nuove e inquietanti visioni del mondo, con un nuovo senso dinamico dell‘universo, della terra. Barocco come sovvertimento, perdita di stabilità, di certezze. Barocco che da preciso momento storico si fa stato mentale, condizione esistenziale di impronta profondamente moderna e di sconcertante attualità in questa fin-de-siècle – e di millennio – in cui un‘umanità apparentemente trionfante si riscopre travolta da paure ancestrali, da superstizioni ataviche („mille e non più mille“), e si ritrova a vagare al buio sulle macerie del proprio raziocinio, delle proprie utopie.
Sopravviveremo, par chiedersi Ritter, alle nuove crociate, alle guerre tribali e fratricide, alle titaniche migrazioni che scuotono gli equilibri - interni ed esterni - delle società, al progresso scientifico che flagella l‘ambiente e va facendo di noi degli esseri denaturati, mutilati nel corpo e nello spirito? (E il suo sopravvissuto scheletrico [III.8], che si ripiega su se stesso come un feto già segnato da chissà quale devastante esperimento genetico, si eleva a monito, a memento).
Non è forse la terra stessa ad essere ormai zattera alla deriva in un universo al crepuscolo eppure ancora ermetico, inconoscibile? Non è forse, questo vano combattere per la vita, anche il lungo destino dell‘uomo moderno, un cataclisma interiore già illuminato dalle lame di luce di Caravaggio e di Ribera, dal loro sforzo di squarciare un nero che diverrà sostanza vieppiù portante nell‘estetica come nell‘anima, metafora e rumore di fondo che risuonerà, via via e in modo diverso, in Frans Hals, in Courbet, in Manet, e, sommamente, in Goya, il Goya delle Pitture nere della Quinta del Sordo, delle creature deformi sorte dagli inferi, e, ancora, nel Géricault non solo della Zattera, ma anche dei poveri pazzi monomaniaci condannati al „sonno della ragione“, al „grande sonno“?
E che questa sia la radice, il terreno per così dire concettuale su cui poggia il ciclo, ce lo conferma proprio il nero, quel nero che è, qui come in Géricault, sostanza bituminosa e accentratrice, che evidenzia i volumi e scava fra i corpi nicchie buie che tutto risucchiano come stelle morte, varchi sull‘insondabile. Attorno al nero si avvolgono le membra, nel nero svaniscono i volti di un‘umanità forse irredimibile e senza speranza di riscatto, condannata a restare aggrappata con tutta se stessa a una vita indecifrabile come i sopravvissuti alla zattera semisommersa, in un‘accozzaglia di arti, in un tanfo di piaghe, in balìa di un mare in tempesta e di una tempesta di sentimenti innominabili, di inconfessabili rancori. E soltanto il livore marcio, putrido, dei gialli e dei verdi, solo i rossi sanguinolenti, raggrumati sulle carni come vera e propria materia organica, interrompono qua e là la tenebra in una luce da fine del mondo, o, peggio, da day after; nemmeno i bianchi diafani, i gelidi azzurrini possono alleggerire il senso di inesorabilità, la mancanza d‘aria di uno spazio che fa delle tele stesse vere e proprie claustrofobiche zattere.
L‘intero fare artistico ritteriano, ribollente di sottili apocalissi, si coagula in quest‘opera che è insieme quadro e installazione, dominio della superficie e concetto spaziale.
Plasmato da questa serie di tele, lo spazio si fa quasi sacro, ieratico, si fa cappella, luogo di meditazione. Non a caso, l‘artista parla di Altarbild: l‘intero ciclo ubbidisce già strutturalmente a canoni pittorici religiosi. Abbiamo un polittico (un dipinto centrale, una scansione di pannelli laterali), abbiamo l‘allusione a un dittico e poi un telero che è, davvero, quasi pala d‘altare; infine, sorta di richiamo a una predella, ecco la sequenza di ritratti di piccole dimensioni. E poi l‘accavallarsi dei corpi in ammassi mostruosi, da cui trapela in filigrana tutta una tradizione pittorica da giudizio universale, da Michelangelo giù giù fino agli inferni del Medioevo nordico, alle tormentate carni di Grünewald.
Accento religioso, dunque, che qui – lungi dall‘ironia che già intrideva invece opere come Il lavaggio dei piedi (1984) – si colora di un misticismo quasi da New Age: confronto-scontro con l‘enigma di una vita che proprio nel momento del sacrificio supremo esplode in tutta la sua veemenza; con il mistero del flusso eterno di distruzione e creazione che possiamo contemplare ogni giorno come su un‘ara sacrificale (la vita che eternamente si sacrifica a se stessa), in cui tutto si trasforma e si trasfonde nell‘altro pur restando identico. Questo tema, da sempre colonna portante nell‘iconografia dell‘artista – le figure-roccia, le donne-montagna –, assume qui, nella sua monumentalità, valenza simbolica assoluta. Ecco allora che la tragedia compiuta, non più latente, dà infine adito a una speranza di catarsi, come il sacrificio reca in sé il seme della redenzione. Sulla scia di una simbologia antica, da viaggio nell‘oltretomba, il naufragio par farsi purificazione, rinascita. Salvati dalle acque, ricoperti di alghe, i sopravvissuti si volgono, nel pannello centrale (III.9), a una luce post-diluviale, una luce ancora informe, ma presente.
Géricault scosse un mondo di eroi con una tela di morte, distruzione, oscurità. Allo stesso modo, quelli di Ritter non sono più gli eroi della ragione e del progresso, soddisfatti ed ebbri di sé: sono i naufraghi di un‘era ormai ridotta a relitto, i reduci di un‘odissea ai quali sarà data, forse, l‘opportunità di toccare una nuova spiaggia, di intraprendere un nuovo cammino spirituale. Emblematicamente, Ritter mette in scena gli anni Novanta come collasso epocale: dopo, sarà il nulla – o un mondo nuovo.
Il senso di battaglia, di lotta e di eterna trasformazione ben si traduce, sul piano formale, in una tensione pittorica soverchiante. Sì, perché in questi dipinti converge in maniera cristallina anche tutta l‘intensa ricerca pittorica compiuta dall‘artista, tutta la sua riflessione sul fare pittura, tutta la sua evoluzione dagli anni Ottanta ad oggi.
Già da tempo i piccoli formati non bastano più a contenere lo slancio creativo. Ora è il singolo supporto, per quanto ampio, a rivelarsi inadeguato e a farsi, dunque, multiplo. In un gioco di formati verticali e orizzontali3 le tele si combinano, allora, per diventare installazione, dialogano l‘una con l‘altra, scandiscono lo spazio con ritmo quasi musicale – i tocchi acuti, staccati come brevi gridi, dei pannelli alti e stretti, l‘accordo ricercato dei quindici volti, e poi il vociare lugubre, il silenzio dei due teleri. Non assistiamo all‘esplosione di una gestualità selvaggia, incontrollabile: è invece il dilatarsi dei contenuti, la necessità di mettere in scena, si diceva, una catastrofe colossale, collettiva. Scorriamoli, allora, questi dipinti, guardiamole queste presenze che ci circondano, ci assalgono.
A livello iconografico non vi è, né vuole esservi, scansione temporale, cronologica: ogni scena è istante a sé, sfaccettatura diversa e simultanea di una medesima situazione fissata come in un lampo al magnesio. Eppure il fattore temporale ben si esplicita in un riconoscibile dipanarsi dei fatti, un succedersi di eventi, di stati emotivi, in un organizzarsi degli elementi in sequenza quasi cinematografica, secondo un movimento orizzontale già contenuto in embrione in dipinti quali il grande sonno (1991).
Ecco il telero che pare racchiudere l‘attimo stesso della tragedia (I): nell‘improvvisa coscienza della fine imminente, i corpi si affollano, premono per trovare salvezza. Urla, rigurgiti, grovigli di membra: il caos in una composizione di fatto attentamente calibrata, racchiusa fra la chiara figura rovesciata e in caduta sulla sinistra (nata dalla costola di una Pecora, o diretta citazione da Das Bett [1990]), e quella scura, dai tratti quasi primitivi, che, a destra, simmetricamente – e simbolicamente – le corrisponde. Fra queste due polarità quasi bidimensionali ma insieme di importanza tettonica, idealmente unite da una terza figura centrale semisdraiata in primissimo piano, le teste si accavallano in masse scolpite in una luce materica, sulla base di uno schema già più volte indagato da Ritter (si vedano le diverse versioni di Boccia [1991]): apparizioni in totale isolamento, senza volto o fisionomia precisa, senza sguardi che si incrocino, mute a qualunque comunicazione, che rabbriviscono oppresse da granitiche solitudini. L‘impasto materico si avvale di pennellate brevi, trattenute, cariche di una tensione latente, mai debordante e proprio per questo poderosa. E poderosi sono la studiata cromia livida, più lacustre che marina, tutta incentrata su toni complementari – rossi/verdi, gialli/violetti – e l‘intrecciarsi simultaneo di superficie e costruzione volumetrica, fonte di ulteriore, inatteso dinamismo. Nel dipinto successivo (II) si è instaurata una calma innaturale. Un silenzio. È una zattera carica di corpi sporchi di sangue e come macchiati di muffe, di licheni, abbandonati gli uni sugli altri, incoscienti, pesanti di un sonno torpido, immobili in balìa delle onde. Una distesa di corpi come un paesaggio, una geografia di montagne e di valli, di morbidi dossi e di dirupi incalzanti, di pietra viva, divisa a metà da una fenditura da impiantito, o da crepaccio. Natura perennemente in fieri, eterno plasmarsi della sostanza vitale.
Ed ecco che la situazione muta di nuovo (III). Al centro, ora, si riconosce la zattera; una luce rancida e diaccia illumina i sopravvissuti. E questi appaiono uno dopo l‘altro, soli, singoli individui senza identità, gioco di carni che riassume una ricerca pittorica decennale.
Ritter accosta figure di stampo quasi accademico, senz‘altro ancora legate a un tipo di espressività da Neue Sachlichkeit (III.10), reminiscenze di quell‘altro momento culminante che è il citato Lavaggio dei piedi, a figure di un altro versante (si vedano, ad esempio, III.2, III.5, III.7), impregnate di quel fremito psichico-erotico alla Degas, alla Bonnard, già attentamente esplorato nella serie dedicata alla Badewanne (1990-1991). Da una plasticità solida, marcata, chiaroscurale (I.10), si trasfonde, attraverso tutta una serie di passaggi intermedi, in cui massa e superficie si combinano e si contrastano creando dinamici equilibri, nella totale bidimensionalità di superfici vibranti pressoché monocrome, che l‘artista tratta sapientemente forte della radicata esperienza grafica e che gettano un ponte verso gli esiti più attuali del suo fare pittura. Le forme lottano per non essere sopraffatte dall‘informe: naufraghe esse stesse, tentano di liberarsi della materia inerte che le sommerge. Appaiono e scompaiono, affiorano e affondano, si raggrumano e si sciolgono. I quindici corpi hanno contorni chiusi, netti, che li disgiungono dall‘amorfo ambiente circostante, eppure sono costituiti della medesima sostanza rugosa e fremente. Talvolta, in uno slancio improvviso, si aprono verso l‘esterno in un tentativo di osmosi, di scambio. Ma la loro è una solitudine che non trova scampo se non, forse, in quel verdognolo incontrarsi di mani nel mezzo del pannello centrale, in quel volersi dare reciprocamente vita quasi da tragica Cappella Sistina. Anche in questa terza serie i volumi si stemperano in superficie e ridiventano volumi in un andirivieni infinito, l‘impasto cromatico solcato da increspature incessanti. Anche qui, il buio lotta con una luce ora livida, ora abbacinante, da obitorio, in un conflitto continuo fra notte e giorno, fra gelo e calore. Contrasti simultanei che generano un moto inarrestabile, il moto, appunto, dell‘universo barocco, dei soffitti sfondati da vorticose ascensioni.
Infine, lo sguardo si fa ancora più vicino in una sorta di zoom che riprende i quindici volti, anonimi eppure carichi di tensione psicologica (IV). Volti in cui tutto converge: gli innumerevoli autoritratti, i suicidi della Valchiavenna, i giocatori di bocce; le figure-ombra, le rocce antropomorfe, i dormienti. Si addensano in un discorso che cristallizza non soltanto la dicotomia di luce e ombra, non tanto il collidere di volume e superficie, quanto l‘antitesi - da sempre centrale in Ritter - fra forma e informale. Un‘antitesi che qui, in questa sequenza finale, sembra toccare uno zenit: i quindici volti, tradotti da diverse angolazioni, si scompongono e si ricompongono senza sosta, sempre sull‘orlo della disintegrazione, dell‘annegamento nel magma, eppure ben presenti nella raffinatezza dell‘impasto materico. Completi e autonomi singolarmente, si rivelano nel contempo accostabili in diverse combinazioni a costituire un‘unica grande tela; si dispiega allora un sapiente gioco di cromìe, di luce e di buio, di profili e di frontalità.
Il difficile – e privilegiato – confronto di Bruno Ritter con la figura trova soluzione in questo „tema barocco“ segnato da una pittura lungamente sedimentata, ormai matura. L‘artista approda a una sua forma di espressività per così dire (e sia concesso il paradosso) introspettiva, non urlata eppure di elaborata pregnanza, in grado di dilatare addirittura su scala spaziale il nesso dialettico fra superficie e volume, fra forma e informe.
Tutte le suggestioni, le problematiche, i nodi che lo hanno avvinto nell‘ultimo decennio – in particolare la situazione di isolamento, di Enge, il sofferto rapporto fra nord e sud, il peregrinare fra espressione e impressione - trovano in questo ciclo di respiro universale una loro affermazione e un loro equilibrio, sfociano in una sintesi già sicura, felice. Una sintesi che è punto non di arrivo ma di svolta, coscienza di una via ancora da percorrere, ma trovata.
„Ein barockes Thema“. So hat Bruno Ritter seinen monumentalen von Le radeau de la frégate La Méduse des Théodore Géricault inspirierten Malzyklus genannt; ein Zyklus, der zur Installation wird und der sich in seinen malerischen Werdegang als ein Ereignis mit weitgreifenden komplexen Implikationen, als wahre Summa, einfügt. Bruno Ritter setzt sich – und uns – mit der Katastrophe auseinander: Das verzweifelte sich Winden und Umfangen der schon fahlen Körper, die in verspäteten Angstzuckungen verkrampften Glieder, die von den Schreien verzerrten und durch das bissige Licht höllisch verformten Gesichter, wie in einem grossen Gemetzel, all diese Elemente geben einem Thema Ausdruck, das für ihn seit langem künstlerisches und existenzielles Leitmotiv ist. Von Der grosse Schatten (1990) über die Berg-Frauen, von den traurigen Schafen, die sich dem Abgrund ausliefern, zu den Schlafenden in Der grosse Schlaf (1991): Stets ist die Katastrophe drohend da. Wie könnte es auch anders sein für denjenigen, der die herben Stein- und Schlammgebilde des Chiavennatals als Lebensraum gewählt hat, jene Felsen, die 1618 durch ihren Absturz die Häuser von Piuro ins Erdinnere zurückgedrückt haben; jene Berge, die bei jedem Schnee- oder Regenfall, bei jedem Sommergewitter angstvoll und mit einem stillen Gebet hochblicken lassen. Ritter kommt als Mensch und als Künstler aus dieser Enge: der physischen Enge eines versenkten Tals, das den eigenen Horizont aufhebt, aber auch der geografischen Enge einer sich immer mehr verschliessenden Schweiz und der psychischen Enge einer selbstgewollten, aber nicht minder schmerzlichen Isolation. Es gibt also keinerlei Bruch zwischen dem Motiv des Flosses als minimalem Raum, der keine Ausdehnung, keinen Atem, kein Wachstum und im weiteren Sinne keine Entwicklung erlaubt, und den Ritter so wichtigen Themen des drohenden Berges oder der Badewanne, zwischen deren eiskalten emaillierten Wänden sich die Körper in entsetzlichen Stellungen winden. Berg und Floss sind die beiden Gesichter einer einzigen Bedrohung, einer einzigen Tragödie. Diese Ritter schon so eigene Poetik erfährt in dem von der Méduse inspirierten Zyklus eine Erweiterung bis zu dem Punkt, an dem die Welt selbst zur Enge wird: Die Welt wird zum global village, durch die Massenmedien verarmt und vereinheitlicht, durchzogen von aseptischen informatisierten Kommunikationswegen, zu einer mikrokosmischen Welt, in der die schlimmsten Konflikte ausbrechen.
Ritter drückt mit „Ein barockes Thema“ die Tragödie einer Menschheit aus, deren Zustand die Einsamkeit vor dem Unbekannten, dem Geheimnis, der Grenze des eigenen Verstandes und des eigenen Seins ist. Verständlicherweise, weil das Floss von Géricault wahrscheinlich den Höhepunkt eines langen Weges darstellt, eines Weges, der seinen Anfang im schwarzen Barock hat, der aus der klaren Renaissance wie ein dunkler Auswuchs hervortritt und deren Grenzen und Perspektiven mit neuen und verwirrenden Weltanschauungen durchbricht. Barock wird zur Umwälzung, zum Verlust an Stabilität, an Sicherheiten. Der Barock verändert sich von bestimmtem historischem Moment in einen mentalen und existentiellen Zustand mit äusserst modernem und verwirrend aktuellem Charakter für dieses Fin-de-siecle – und Ende eines Jahrtausends –, in dem eine scheinbar siegreiche Menschheit sich von Urängsten, von atavistischem Aberglaube („tausend und nicht mehr tausend“) befallen sieht und im Dunkeln zwischen den Ruinen der eigenen Vernunft, der eigenen Utopien umherirrt. Es ist die langwährende innere Umwälzung, wie sie schon Caravaggio und Ribera mit ihren Lichtschwertern beleuchtet hatten, mit ihrem Bemühen, das Schwarze zu zerreissen, das nach und nach immer tragender wird, in der Ästhetik wie in der Seele, Hintergrundgeräusch, das in Frans Hals, in Courbet, in Manet und in Goya erklingen wird, jenem Goya der Schwarzen Malerei der Quinta del Sordo, und weiter in Géricaults Floss wie auch in seinen armen monomanischen Irren, die zum „Schlaf des Verstandes“, zum „grossen Schlaf“ verurteilt sind. Somit sind die Helden Ritters nicht mehr jene der Vernunft und des Fortschritts; es sind im Gegenteil Schiffbrüchige einer zur Ruine heruntergekommenen Epoche, denen vielleicht die Hoffnung auf Katharsis geboten wird, die Möglichkeit, neue Ufer kennenzulernen, einen neuen geistigen Weg zu gehen. Es erstaunt keineswegs, dass der Künstler den Begriff des Altarbildes einführt: Die religiöse Betonung erhält eine mystische Färbung in dem steten Aufeinandertreffen mit einem Leben, das sich in alle Ewigkeit sich selbst opfert, in dem ewigen Lauf von Zerstörung und Schöpfung, in dem sich alles wandelt und doch identisch bleibt. Dieses Gefühl des Kampfes und der ewigen Verwandlung zeigt sich eindrücklich in einer überwältigenden malerischen Spannung, gerade weil in diesen Bildern auch der ganze malerische Werdegang des Künstlers von den achtziger Jahren bis heute zusammengefasst ist: Die dialektische Beziehung zwischen Ausdruck und Eindruck, Formalem und Informalem, Tiefe und Fläche, die Ausdehnung und Vervielfältigung der Formate, die lange Ablagerung der Materie, all dies erlebt eine Bestätigung in der schon sicheren und geglückten Synthese eines universale Ansprüche stellenden Zyklus‘.
Perché questi artisti stanno insieme? Perché insieme espongono? Se si osserva in giro, si vede che dopo tante polemiche, speranze, insulti e ignoranze, I‘arte contemporanea tende nuovamente a perdere quell‘impulso vitale, realistico, che veniva agli artisti da un accordo con le cose, mentre si sviluppa una più acuta antitesi tra la nostra civiltà postindustriale e quel che resta della nostra campagna. Per taluni, il realismo e naufragato con la classe operaia, che sarebbe morta e sepolta; d‘altra parte la postavanguardia, a cui sarebbero affidate le sorti intellettuali dell‘arte, ha ceduto vigore, stemperandosi in un eclettico lirismo o in giochi che ormai annoiano privando noi pubblico di quel tanto di divertente che ci presentavano ogni tanto. Non sono questi quattro artisti, per quanto di valore, che rifonderanno l‘arte moderna. Ma è certo che né Floriano Fabbri né Bruno Ritter, un romagnolo e uno svizzero, né la Simone né Simonini, milanese ed emiliano vogliono affondare nella nebbia, nell‘inconsistenza del manierismo contemporaneo. Essi operano perché l‘arte è per loro una necessità ideale, innata e accettata con gioia e sofferenza, perché dipingere e formare, modellare è cosa grata ma richiede anche tanti sacrifici, prima di tutto quello dell‘incertezza sulla destinazione dell‘opera. Chi oggi ha bisogno di arte? I quattro hanno fiducia nell‘ottimismo del mondo, in cui si risolve la dialettica tra Città e Campagna nella misura in cui, accanto al negativo dell‘esistenza, si manife sta una gioia di vivere, una bellezza del sentimento che può affermarsi anche negli oscuri presentimenti di Simonini, come nelle denunce delle aspre realta del corpo di Ritter o di Fabbri, mentre i colori freschi, talvolta esaltati, della Simone esprimono una gran voglia di vivere, di esistere. In Città? In Campagna? La nostra civiltà riacquisterà l‘equilibrio quando i due termini accostati significheranno di nuovo completezza e felicità dell‘esistere.
Ich habe Bruno Ritter einmal im März besucht. Von einer merkwürdigen Agentur hatte ich ein noch seltsameres Engagement für eine Lesungsreihe unter dem stolzen Titel „Dichter lesen im Hotel“ in einer Luxusherberge Pontresinas vermittelt bekommen. Tagsüber gingen meine Frau und ich unter dem stahlblauen Engadiner Himmel fröhlich wandern, abends assen wir wie die Maharadschas, dann hatte ich, um punkt 21 Uhr, als „poetischer Tellerwäscher“ im Bridgezimmer meinen Aufenthalt abzuarbeiten, wo ich den müden & sensiblen, aber viel-zu-reichen Frauen der abwesend bleibenden, in der Bar an ihren Zigarren saugenden, vermutlich grossindustriellen Ehegatten die wunderbaren Schönheiten meiner Poesie in die Ohren hauchen musste. Wir riefen schon am ersten Abend Bruno an, nicht gerade verzweifelt, aber wir brauchten dringend seinen Humor, seine Kunst und seine bei allem Künstlertum erholsame Menschlichkeit.
Am nächsten Morgen stand Brunos inspiriert verbeultes und staubiges Autovehikel an der Prunkauffahrt des schlossartigen Hotels, von den bodenlos verblüfften Hoteldienern und entgeisterten Hotelgästen misstrauisch beäugt, als sei gerade ein Ufo im Engadin gelandet. Dann fuhren wir zu dritt schleunigst los und hinaus und hinab auf Brunos Alltagsroute.
Bruno Ritter hat wohl einen der spannungsreichsten Wege zur Arbeit, die man sich denken kann. Er lebt in Maloja, im Kanton Graubünden, nicht weit von Nietzsches Lieblingsspaziergängen um den Silser See, umgeben von imposanten Alpengipfeln. Eine grandiose Kulisse für einen Maler. Tatsächlich warf „der Berg“ jahrelang immerzu seinen Schatten und sein wechselndes Licht auf Brunos Leinwände. Aber lebt er wirklich dort im Alpenreich? Jeden Morgen steigt er ins Auto und nimmt erst einmal die siebzehn engen Kurven ins Bergell hinab, nach Casaccia, und weiter das Tal hinab von Drift zu Drift, eine Fahrt ebensosehr durch die Gesteinsschichten wie durch die Geschichte der Malerei. Bruno startet in Maloja, dem späten Wohnort des Alpenmalers Segantini, und passiert auf seinem Weg das Dorf Stampa, aus der die ganze weltberühmte Künstlerfamilie der Giacometti stammt, deren wichtigster Spross Alberto die Bildhauerei und die Malerei des 20. Jahrhunderts revolutioniert hat. Und weiter hinab: Unter Schuttkegeln, den Resten der Bergstürze, liegen verschüttete Dörfer, verschüttetes Leben.
Das Bergell ist ein karges, knorriges, von atemberaubenden Klüften geprägtes Tal, wo man einen schwerverständlichen Dialekt spricht, das Bargaiot: eine verwegene Mischung aus Rätoromanisch und Lombardisch. Eine Art sprachliches Urgestein. Man denkt, die Menschen dort haben einen Berg im Mund. Wenn Bruno sein Atelier im nur 32 Kilometer von Maloja entfernten norditalienischen Chiavenna erreicht, hat er viele Grenzen hinter sich zurückgelassen und rund 1600 Meter Höhenunterschied, die er abends wieder in der Gegenrichtung absolviert, himmelwärts, als sei nichts dabei. Wir besuchten ihn, wie gesagt, im März, in Maloja auf 1900 Meter lag noch menschhoch Schnee, als wolle der Winter nie wieder vergehen. Dann landeten wir unversehens in Chiavenna auf 300 Meter, in einem hübschen italienischen Städtchen mit Palmen, Zypressen und Oleandersträuchern. Dort stolzte bereits ein unübersehbar prächtiger südlicher Frühling. Ich rieb mir die Augen, konnte den Wechsel kaum glauben, der Kontrast war so unerhört, dass man leicht den Verstand hätte verlieren können.
Wie hält er das aus, diese täglichen Kontraste zwischen Nord und Süd, diese abrupten Klüfte, dieses tägliche Wechselbad von schneereichem Schweizer Bergimperium und dem Städtchen mit der schamlos italienischen Seele? Vielleicht ist das Aushalten der Kontraste sein Lebensprogramm, oder sein Arbeitsprojekt als Maler. „Il pendolare“ – „Der Pendler“ hiess eine ganze Bilderserie oder: eine Lebens- und Schaffensphase. Das Pendlertum ist seine Existenzweise. Auch in der heutigen Ausstellung gibt es eine Erinnerung daran, das grossartige „Pendler-Triptychon“ mit Berg, Strohstuhl und Pinsel-Gewirr.
Bruno Ritter ist ein hellwacher Fährmann zwischen Nord und Süd, zwischen Abstraktion und detailtreuer Figürlichkeit. Er ist ein strenger Alpenkönig und italienisch inspirierter Ambasciatore der Sprache der Malerei.
Bruno ist für mich die verkörperte Mal-Leidenschaft, so etwas wie ein Vollblutmaler, ein immerzu Suchender, der weder die existentiellen noch die farblichen Klüfte und Kontraste scheut, sondern in sie eintaucht, sie erforscht, mit unbändiger vitaler Lust in ihnen wühlt. Er ist ein Erforscher der malgeologischen Alpendrifte, der Lebensklüfte, der Bergstürze einer Existenz. Er ist ein Rastloser, immer unterwegs zu neuen Themen, Techniken, Temperamenten. Das ist vielleicht pathetisch gesagt, aber darüber soll nicht Brunos ernsthafte Kunst des Humors und der Selbstironie vergessen gehen.
Auch in der neuen Ausstellung hält er wieder enorme Kontraste und Überraschungen parat. Vor wenigen Jahren stand ich vor grossen abstrakten Gemälden voller kraftvoller Gesten und Flugbewegungen von immensem Schwung. Und jetzt plötzlich: gebändigte Stille. Oder scheinbare Stille. Mit dem Begriff „Stilleben“ jedenfalls kommt man diesem Maler nicht bei, zu sehr brodelt es unter der Oberfläche. Es sind Innenansichten eines Ateliers und eines Hand-Werks, das bunte Chaos im Detail seines Arbeitsortes im Castello di Chiavenna. Diese scheinbaren Stilleben sind nicht Ausdruck der milden Beruhigung und Abgeklärtheit. Misstrauen Sie der Stille! Hier herrscht ein freches Durcheinander mit wunderbaren farblichen Akzenten und tiefen Einblicken in die zerklüfteten Bergtäler des Ateliers. Beachten Sie die Bildausschnitte, die sich keineswegs brav in den Rahmen fügen. Dieses Chaos ist gewagt komponiert und lebt von inneren Spannungen, die dieser Künstler kultiviert. Die Bilder bezeugen eine farbenreiche und heitere, doch beharrliche Konzentration auf das Naheliegendste, auf die Instrumente der täglichen Malpassion. Schlichtes Malwerkzeug, Farbdosen, Spachtel und Tuben werden zu Gebirgsmassiven, zu Augen-Zeug und Augenzeugen des gestalterischen Ringens. Kontemplativ, aber kühn ist der Blick, gebändigt, aber immerzu impulsiv der Pinsel. Es ist unruhiges „Stilleben“, das hier ausgekostet wird. Meditation, konzentrierte Einkehr und ungestümes Temperament sind nicht Dinge, die sich gegenseitig ausschliessen müssen. In seinen Gedanken zur heutigen Ausstellung hält Bruno fest:
„Mein Atelier ist mein Ort der Einkehr, in geistigem Sinn, und der Ort, wo mein ganzes Leben herumliegt, den ich täglich begehe. Ich wandere, befreie meine Tische und verstelle dafür andere Orte, die ich dann umgehen muss. Die Fülle im Atelier ist immer wieder Anlass, das Raumbild zum Motiv zu nehmen, es abzutasten, es in ein Bild zu fassen. Gleichzeitig erschütternd, mich darin zu erkennen, wahr zu nehmen, dass ich im ganzen Chaos durchaus eine Ordnung zu erkennen vermag.“
Die gegenwärtige Reise durch das eigene Atelier, das ihm mit einem neuen Blick plötzlich so fremd wie vertraut vorkommen dürfte, ist also wieder festgehalten in einem malerischen Forschungsbericht. Das ist der innere Kongo des eigenen Ateliers. Aber kein finsterer Dschungel, sondern ein verblüffend lichtvoller, von heiteren Farben durchfluteter. Und selbstverständlich sind das nicht einfach gleich-gültige Gegenstände, sondern es ist liebgewordenes Gerät des gelebten Lebens. Lassen wir noch einmal Bruno Ritter selber sprechen:
„Einzelne Gegenstände sind mir lieb geworden. Der Stuhl, dieses mittlerweile unförmige Strohgeflecht, das sich in Auflösung befindet, mir seit Jahren als „Regie“-Stuhl dient. Auch die Pinselablage, meine Yucca und meine Holzskulptur sind immer wieder anzutreffen neben all den Tischbildern, die sich täglich in Veränderung befinden. Alles gehört zu meinem Alltag im Atelier. (…) Es sind Portraits! Es sind Gegenstände, denen ich ein Eigenleben zuspreche, die einst, oder noch eine Aufgabe erfüllen mussten oder müssen, die jederzeit wieder in Gebrauch genommen werden können.“
Und plötzlich erkennt man, dass zwischen den Bergansichten des Bergell und dieser konzentrierten Atelierkontemplation eben doch ein Band besteht, dass die Spannung zwischen den Gegenständen genauso intensiv ist wie bei den Bergschründen, gestürzten Schafen und zerklüfteten Körpern und Gesichtern, die Ritter früher gemalt hat. Und man ahnt schon, dass der gebannte Blick ins eigene Atelier eine wichtige Etappe sein wird, ein konzentriertes Innehalten vor einem neuen Sprung in das Unbekannte.
Aber Bruno schwelgt in der neuen Schaffensphase keineswegs ausschliesslich in bunten Versammlungen unbelebter Gegenstände. Natürlich sind wieder Menschen da, konzentrierte und spannungsreiche Figuren und Situationen. Es gibt in der neuen Ausstellung eine sitzende, dunkle Figur auf einem Stuhl, vom Betrachter abgewandt, ihm den Rücken zuwendend oder einfach die rechte Schulter. Das faszinierende Bild heisst schlicht „Schulter“. Kein Gesicht ist sichtbar, nur diese dunkle ruhende Figur in Rückenansicht. Vielleicht ist es die Malerei selber, die Malerei als „das unbekannte Wesen“, das sich in diesem Moment nicht enthüllen will, sondern erst einmal versunken nachdenkt, wohin die Reise gehen soll.
Die Spannung eines Gesprächs ist unmittelbar spürbar in dem Bild „Dialog“, wo die Gesichtszüge des Gesprächspartners klar erkennbar, jene des tiefer sitzenden Malers aber abgetaucht sind in das Nachdenken und die Intensität des Dialogs. Er braucht nicht einmal den realistischen Gesichtsausdruck, um diese Intensität spürbar zu machen: Dieses braun durchfurchte Gedankengelände genügt ihm, um die Idee eines Gesprächs darzustellen. Auch die kauernde Figur in „Sara spielt“ braucht keine realistischen Gesichtszüge, um das Versunkensein ins Spiel packend glaubhaft zu machen. In diesen beiden bewegten, abstrakten Gesichtslandschaften entsteht eine schöne Verbindung zwischen dem konzentriert schaffenden Maler und der konzentriert spielenden Tochter Sara.
Dabei scheut sich Bruno Ritter keineswegs, den Menschen ins Gesicht zu sehen und – sich selber ins Gesicht zu sehen. Die Reihe von Selbstporträts ist etwas vom Verblüffendsten in seinem Werk. Er hat auch schon mit der Tradition der Selbstporträt-Serie gespielt und gern Rembrandt zitiert. Im Zitieren der Tradition - etwa auch in der Auseinandersetzung mit Albrecht Dürers für Bruno RITTER besonders wichtigem Kupferstich „Ritter, Tod und Teufel“ - liegt nicht nur ein Ausleben des Spieltriebs, sondern grosser Ernst. Die „Dramaturgie der Zeit und des Erscheinens“ bestimmt Bruno Ritters Werk. Der eigenen Zeit, der flüchtigen Lebenszeit, und der in der Malereigeschichte festgehaltenen Immer-Zeit. Was auffällt in Brunos Selbstporträts, ist die Tatsache, dass er sich so ungescheut ungeschönt zeigt. Kein munteres Bürschchen, das es mit den Model-Beaux aus Werbung und Mode aufnehmen will, sondern eher ein ur-uralter Mann mit einem Gesicht voller Furchen, einem tief gelebten Gesicht. Es sind Porträts des Künstlers als geprüfter und sich selber prüfender Mann. Viele Gedanken haben sich eingegraben in dieses Gesicht, viele Blicke sind eingesunken in diesen Augen spürbar, die ganze Malereigeschichte ist Haut, Knochen und Fleisch geworden. Und manchmal ist im Gesicht auch jener Funke des Wahnsinns wahrnehmbar, der zu jeder wirklichen Kunst gehört.
Wie schrieb Novalis, einer meiner Lieblingsautoren (mein letzter Gedichtband heisst „NOVALIS IM WEINBERG“), in einem seiner Fragmente: „Alle Bezauberung ist ein künstlich erregter Wahnsinn.“ Und an anderer Stelle: „Wahnsinn und Bezauberung haben viel Ähnlichkeit. Ein Zauberer ist ein Künstler des Wahnsinns.“
Jeder Maler oder Dichter ist ein Mischwesen aus Enthüllungs- und Verhüllungskünstler. Also auch ein Zauberer. Ein guter Zauberer aber wird sich hüten, alle seine Tricks und Künste auf einmal zu enthüllen. Es gibt Maler, die haben mit fünfundzwanzig Jahren ihren Stil und ihr Thema gefunden und beackern darauf ihr einziges Feld bis ans Lebensende. Sie zitieren sich fast nur noch selber und erschaffen sich nicht mehr neu, sondern reproduzieren müde nur das einmal Gefundene. Bruno Ritter ist das pure Gegenteil, nie weiss man, wohin er als nächstes aufbrechen wird, wohin der Sprung in das ungestüme Element der Vollblutmalerei ihn lenken wird. Womit er sich und uns als nächstes überraschen wird.
Lassen sich sich von Bruno Ritter in der heute eröffneten neuen Ausstellung einfach überraschen und überrumpeln und bezaubern.
Im Katalog zur Ausstellung Bruno Ritter (* 1951)2 1992 im Museum zu Allerheiligen steht im kurzen Lebenslauf des Künstlers: «1982, Auswanderung nach Italien». 1980 fand in der Galerie Stadthausgasse in Schaffhausen eine Einzelausstellung statt, 1981 eine in der «Ciäsa Granda» in Stampa. Dieser Wechsel zwischen Ausstellungen in der Region, auch in Zürich, und in der italienischen Schweiz sowie in der Lombardei, gehören in den folgenden Jahren zur Biografie von Bruno Ritter. In ihr spiegelt sich seine Unruhe, verbunden mit der Frage: Wo gehören der Künstler und seine Kunst hin?
1982 wählte Ritter Chiavenna als Arbeitsort. Chiavenna ist keine Stadt mit einer interessanten Kunstszene, sondern der Hauptort am Ausgang des Val Chiavenna, der südlichen Verlängerung des Bergell, ein Ort zwischen den Bergen und gleichzeitig unmittelbares Tor zum Süden. Der Süden bedeutet für Bruno Ritter nicht so sehr die kulturelle Tradition, die in der Antike ankert, sondern ein Lebensgefühl, das mit dem Leben auf der Strasse und auf den Plätzen und mit einem Hang zum Anarchischen verbunden ist.
Eines der Hauptthemen in Ritters Schaffen ist der Berg, ein Motiv, das der Künstler schon im Norden entwickelt hat. Mit ihm stellt er sich einem Inbegriff des Schweizerischen, das seit Ferdinand Hodler (1853-1918) die moderne Schweizer Kunst prägt und für jeden Landschaftsmaler im 20. Jahrhundert eine Herausforderung bedeutete. Bei Ritter steht der Berg immer in Beziehung zum Menschen, als Bedrohung, als Kraft, als unausweichliches Gegenüber. Der Künstler spürt auch der mythologischen Bedeutung dieses Urmotivs nach. Darin steht er der italienischen Transavantguardia mit ihren Vertretern Sandro Chia, Enzo Cucchi und Francesco Clemente, die in den 80er-Jahren zu internationaler Bedeutung gekommen sind, nahe. Der Schaffhauser Künstler fand italienische Kritiker, die diese Tendenz vertraten und die über seine Malerei schrieben. 1986 war er an verschiedenen regionalen Biennalen präsent, 1988 hatte er eine Einzelausstellung in einer Galerie in Mailand. Trotzdem blieb ein eigentlicher „Durchbruch“in der aktuellen Kunstszene aus. Ritter verkehrt nur selten in den kunstbestimmenden Kreisen in den italienischen Metropolen. Er lebt wie vorher am nördlichen Rande der Schweiz - nun an der nördlichen Grenze der Lombardei. Das hat - gerade ferne der Heimat, wo nicht Freunde und Bekannte zum Sammlerkreis gehören - seinen Preis, den er aber, um frei zu arbeiten, mit seiner Familie auf sich nimmt.
«Faire de l‘art vivant» - das bedeutet für Ritter, eine Sprache zu finden für den persönlichen existenziellen Kampf zwischen Verlorenheit und Aufgehoben sein. In seinen neusten Werken ist die Malerei absolut geworden, «eine Malerei, die aus dem reinen Akt des Malens gewonnen wurde».‘ Mit der «art vivant» durchzudringen bedeutet aber auch, vom Kunstmarkt wahrgenommen zu werden, gesellschaftliche Beziehungen zu pflegen: Kontakte, die vielen Künstlerinnen und Künstlern nicht liegen.